Comorbilità Covid-HIV: pochi casi nelle prime rilevazioni dal mondo. Lo evidenzia una pubblicazione USA

Covid 19 nel mondo fotoLa pandemia da COVID - 19 continua a rappresentare una grave emergenza mondiale. Se in Italia e in Europa l’ondata epidemica mostra una forte decelerazione, in altri quadranti del mondo è ancora piena emergenza. Mentre scriviamo, i casi accertati di Covid sfiorano, globalmente, i nove milioni mentre i decessi superano i 450mila.

La pandemia non può dirsi finita e in autunno sarà possibile una seconda ondata” ha detto nei gionri scorsi Anthony Fauci, uno degli immunologi più illustri al mondo, capo del dipartimento malattie infettive dei CDC, Centers for Disease Control and Prevention USA (centri per il controllo delle malattie infettive) e consulente (mal tollerato) della Casa Bianca per l’emergenza. Per saperne di più sul SARS-CoV-2 e su come arginarlo, in tutto il mondo si analizzano dati, fioriscono studi e ricerche, si testano ipotesi di studio. Tra queste anche alcune dedicate alle possibili interazioni HIV-COVID.

Di particolare interesse una pubblicazione finanziata dalla fondazione Angelo Donghia, curata dal Professor Jeffrey Laurence, della Divisione di ematologia e oncologia medica del Weill Cornell Medical College, New York. Fin dal titolo l’articolo, pubblicato a fine maggio sul “Mary Ann Liebert, Inc., publishers”, si interroga su alcune evidenze osservate già nelle settimane più dure dell’epidemia: Why Aren’t People Living with HIV at Higher Risk for Developing Severe Coronavirus Disease 2019 (COVID-19)?” Ossia: perché le persone con HIV non evidenziano un maggior rischio di esposizione al Coronavirus in forma severa?

Se, dunque, all’inizio dell’ondata epidemica si temeva, a ragione, per la sorte di tutte le persone immunodepresse, e in particolar modo per le persone con HIV, ora gli studiosi, in diverse parti del mondo si chiedono perché questo non sia accaduto. Le principali disfunzioni prodotte dal virus SARS-CoV-2 –ricorda il Professor Laurence- sono le progressive insufficienze respiratorie e renali, spesso collegate ad una trombosi micro - vascolare sistemica, ad una coaugolopatia generalizzata e ad una marcata risposta infiammatoria dell’organismo. Comunemente, la malattia si manifesta nella sua forma più grave in presenza di alcune comorbilità: obesità, diabete melito, ipertensione e di alcuni fattori di rischio come l’età avanzata, l’appartenenza al sesso maschile, l’appartenenza a gruppi di popolazione più vulnerabili dal punto di vista socio-economico, data l’impossibilità di praticare il dovuto distanziamento sociale. Ciò che davvero non era prevedibile, “il grande enigma” dice lo studioso, è, tuttavia, la scarsa presenza tra i casi più gravi di persone che vivono con l’HIV.

A sostegno, la pubblicazione riporta l’esito di alcune prime, parziali, analisi di dati compiute in diversi paesi. La prima arriva da Wuhan, in Cina. Nella città epicentro della pandemia, tra gennaio e febbraio 2020, ossia nel periodo clou dell’espansione del virus, un esame su 138 pazienti ricoverati presso lo Zhongnan Hospital of Wuhan University evidenziava come solo l'1,4% dei casi di COVID riguardasse PLWHIW .

La seconda serie arriva dall’osservazione condotta tra febbraio e aprile 2020 su 16.749 pazienti ricoverati per Covid in 166 ospedali del Regno Unito; tra loro solo l’1% era PLWHIV ma per nessuna l’HIV ha avuto un impatto negativo sulla sopravvivenza. 

Dati interessanti anche da New York , dove uno studio su 5700 persone ricoverate per COVID in dodici ospedali cittadini nel mese di marzo ha mostrato che solo lo 0,8% aveva l’HIV e questo in una città con percentuali di persone HIV positive ancora significative.

A Barcellona, infine, osservati 543 pazienti. Tra i sessantadue che hanno avuto bisogno di ricovero, solo cinque erano PLWHIV. Nessuno di loro è deceduto.

Un'ovvia ipotesi su questa apparente mancanza di rischio correlato all'HIV per lo sviluppo di COVID-19 grave o critico – scrive nella sua pubblicazione il Prof. Laurence- è la protezione offerta dalle terapie ART, antiretrovirali” . La parziale efficacia di farmaci antivirali nati per il contrasto di altre infezioni è stata, del resto, sperimentata in funzione anti-COVID un po’ in tutto il mondo. E’ il caso del Remdesivir, farmaco anti - ebola, che, in uno studio sponsorizzato dal NIAID, l'Istituto Nazionale americano per le allergie e le malattie infettive, ha indicato effetti significativi contro SARS CoV-2. In particolare, Remdesivir in pazienti ricoverati con affezioni polmonari da COVID-19 ha permesso tempi di recupero del 31% più veloci rispetto a quelli trattati con placebo. 

Un altro studio dell’Università del Cairo suggerisce come anche il Tenofovir, uno dei farmaci più ampiamente utilizzati sia per il controllo dell’HIV che per la PrEP, la profilassi Pre-esposizione, sia in grado di bloccare l’enzima noto come RNA polimerasi RNA-dipendente, utiizzato dai coronavirus per replicarsi. Analogo effetto sembrano avere anche Ribavirin, Sofosbuvir, Galidesivir.

L’impatto clinico del COVID sulle persone con HIV sembra, dunque, essere stato fino ad ora modesto rispetto a quello avuto su persone affette da altre patologie croniche. Non altrettanto si può dire però dell’impatto socio-sanitario.

Un monitoraggio effettuato da EATG, European AIDS treatment Group tra il 27 aprile e il 4 maggio 2020 mostra come l’emergenza COVID abbia avuto un impatto piuttosto negativo sulla qualità delle cure per le persone che vivono con l'HIV e sui servizi di prevenzione. L’istantanea riguarda la situazione in ventisei paesi europei e dell’Asia centrale ed è quanto risulta dalle interviste a cinquantasette persone, perlopiù esponenti di community e ONG. Appuntamenti posticipati, analisi di follow-up saltate, riduzioni nella consegna dei farmaci sono alcuni dei problemi indicati. Segnalata anche la sospensione di molti servizi di testing e di erogazione della PrEP. 

 

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