CROI 2016 - Terzo Bollettino

CROI2016LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XXIII Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche - CROI 2016, in corso a Boston, negli Stati Uniti, dal 22 al 25 febbraio 2016.

 

 

 

TERZO BOLLETTINO


Trattamento di sei settimane per l'epatite C acuta nelle persone con HIV
Sei settimane di trattamento con sofosbuvir/ledipasvir sono sufficienti a curare l'infezione acuta da epatite C nei pazienti con bassa carica virale del virus HCV.
È quanto emerge da uno studio condotto su 26 pazienti HIV-positivi con una recente infezione da HCV (il virus responsabile dell'epatite C) in Germania e Regno Unito, tutti con un'infezione da genotipo 1 o 4.
I partecipanti hanno ricevuto il trattamento per l'HCV in aperto per sei settimane.
Dodici settimane dopo il termine della terapia, il 77% dei partecipanti presentava una risposta virologica sostenuta (quella che viene considerata la 'guarigione' dall'HCV).
Non si sono verificati eventi avversi di grave entità, e gli effetti collaterali più comuni sono stati spossatezza e mal di testa.
Il trattamento si è rivelato particolarmente efficace negli individui con bassa carica virale HCV, mentre per chi presenta livelli più elevati gli autori raccomandano un ciclo di terapia più lungo.
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Abbattere le barriere all'inizio precoce della ART
In uno studio condotto in Uganda, grazie a una semplificazione delle procedure cliniche è stato possibile far iniziare la terapia antiretrovirale (ART) al 70% di un campione di pazienti non appena divenivano eleggibili.
Le linee guida dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomandano che chiunque riceve una diagnosi di infezione da HIV assuma la ART. Secondo i risultati di recenti studi, iniziando il trattamento antiretrovirale con una conta dei CD4 ancora superiore a 500 cala il rischio di sviluppare patologie gravi. In realtà, però, gran parte dei pazienti tarda a entrare in cura, e questo non solo si ripercuote sulla loro salute, ma contribuisce anche ad alimentare la trasmissione dell'HIV.
In Uganda, i pazienti tipicamente accedono per la prima volta alle cure per l'HIV quando la loro carica virale si aggira su 370, e non iniziano la terapia antiretrovirale finché non è scesa a livelli di poco superiori a 100.
I ricercatori hanno voluto verificare se offrendo un monitoraggio dei CD4 al point-of-care e una formazione più specifica per il personale sanitario, anche senza il pre-requisito del counselling per l'aderenza terapeutica, sarebbe stato possibile aumentare la percentuale delle persone che iniziavano il trattamento anti-HIV non appena soddisfacevano i criteri di eleggibilità (secondo il parametro della conta dei CD4).
Nel periodo dello studio, condotto presso 20 strutture cliniche, sono divenute eleggibili al trattamento oltre 12.000 persone, con una conta dei CD4 in media di poco superiore a 300. Con il percorso di cura tradizionale, solo il 18% di loro iniziava la ART lo stesso giorno in cui diventava eleggibile, e il 38% nell'arco delle due settimane successive.
In seguito all'attuazione dell'intervento, queste percentuali sono salite rispettivamente al 71% e all'80%.
Secondo gli autori, "estendendo questo intervento si potrebbero aumentare efficacia ed efficienza del continuum di cure in Africa."
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La terapia precoce riduce il rischio di tumori di origine infettiva
Chi inizia la terapia antiretrovirale con una conta dei CD4 superiore a 500 ha molte meno probabilità di sviluppare una patologia tumorale di origine infettiva rispetto a chi entra in cura con conte dei CD4 meno elevate. Sono risultati che vengono da un ampio studio denominato START, mirato a indagare proprio il tema dei benefici della terapia precoce.
Lo studio ha preso in considerazione pazienti con conte dei CD4 superiori a 500, che sono stati randomizzati per iniziare subito il trattamento antiretrovirale o attendere finché la conta linfocitaria non fosse scesa a 350.
Complessivamente, dai risultati è emerso che la terapia precoce ha indubbi benefici. I risultati preliminari mostravano anche che, iniziando prima il trattamento, il rischio di tumore diminuiva di due terzi, ma non si faceva specificamente distinzione in base all'eziologia del tumore.
L'analisi più recente si è invece concentrata proprio sulle patologie tumorali di origine infettiva, dimostrando che la terapia precoce è in grado di ridurre il rischio del 75%. Le forme di tumore più comuni sono risultate il sarcoma di Kaposi e il linfoma non-Hodgkin. Tra gli altri predittori dell'insorgenza di una patologia tumorale di origine infettiva sono stati identificati l'età avanzata, un alto indice di massa corporea (BMI), la provenienza del paziente da una regione a basso reddito e una carica virale elevata.
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Segnalato un caso di fallimento della PrEP
Alla Conferenza è stato segnalato un raro caso di fallimento della profilassi pre-esposizione (PrEP) malgrado un buon livello di aderenza.
L'aderenza è un fattore chiave per l'efficacia della profilassi pre-esposizione. Chi si attiene scrupolosamente alle indicazioni di assunzione ha un rischio bassissimo di acquisire il virus dell'HIV.
Tuttavia un uomo di Toronto ha contratto l'infezione malgrado riferisse di aver sempre rigorosamente aderito alla PrEP.
Il ceppo di HIV che gli è stato diagnosticato è risultato resistente a numerosi farmaci.
Sebbene non sia stato possibile accertare senza ombra di dubbio se i livelli di antiretrovirali che l'uomo presentava nel sangue fossero sufficienti a proteggerlo dall'infezione, nel complesso i ricercatori sono convinti che si sia mantenuto aderente al trattamento.
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Prova di fattibilità per uno screening della TBC a domicilio su larga scala
L'offerta di screening per la tubercolosi (TBC) nell'ambito di un intervento per il test HIV a domicilio può consentire di individuare infezioni da TBC che altrimenti non verrebbero diagnosticate: lo testimonia uno studio condotto in Zambia.
Tra le persone HIV-positive i tassi di TBC sono elevatissimi, perciò offrire contemporaneamente il test per queste due infezioni è una mossa sensata. Tuttavia, mentre per l'HIV può bastare un rapido test anticorpale che può essere comodamente eseguito anche al di fuori delle strutture sanitarie o perfino a domicilio, per la TBC lo screening consta di diversi passaggi e non è ancora disponibile un test effettuabile al point-of-care.
L'equipe dello studio PopART ha bussato casa per casa in otto comunità dello Zambia, offrendo il test dell'HIV e un primo screening dei sintomi della TBC. Chi presentava sintomi ascrivibili all'infezione o viveva con un familiare in trattamento antitubercolare veniva invitato a sottoporsi a un esame dell'espettorato.
Delle oltre 200.000 persone che hanno preso parte allo studio, il 98% ha accettato di sottoporsi allo screening. Solo l'1,2% presentava sintomi di TBC e la maggior parte (82%) ha eseguito l'esame dell'espettorato. I tre quarti di loro si sono effettivamente recati a ritirare i risultati e il 9% ha avuto conferma della diagnosi di TBC, per un tasso di identificazione di 417 su 100.000.
La percentuale di persone con sintomi di TBC si è rivelata inaspettatamente bassa. Ciò nonostante, lo studio ha dimostrato la fattibilità di uno screening della TBC su larga scala integrato nei programmi per l'offerta del test HIV a omicilio.
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Maschi omosessuali HIV-positivi, sesso e droga
Una percentuale significativa dei maschi omosessuali HIV-positivi assistiti in cliniche per la salute sessuale in Inghilterra e Galles dichiara di fare uso di droghe durante il sesso.
In una ricerca condotta in 30 strutture cliniche del Regno Unito, circa un terzo dei maschi omosessuali HIV-positivi ha dichiarato di assumere droghe per liberarsi dalle inibizioni e aumentare il piacere durante il rapporto sessuale (una pratica anche nota come "chemsex" o 'sesso chimico'), e circa il 10% di fare uso di droghe per via iniettiva durante il sesso ("slamsex"). Il tasso di consumo di droga durante il sesso è risultato particolarmente elevato a Londra.
Si tratta di un'indagine condotta su un campione di 582 maschi omosessuali. Le sostanze più utilizzate sono risultate GHB/GBL, chetamina, metamfetamina e mefedrone. Queste ultime erano anche quelle più frequentemente assunte per via iniettiva. Circa un terzo di coloro che ha dichiarato di praticare il "chemsex" era nella fascia d'età compresa tra i 35 e i 54 anni.
Si sono osservati tassi di consumo di droghe durante il sesso particolarmente elevati a Londra (37% contro il 17% al di fuori dalla capitale).
Molto diffuso è risultato anche il sesso anale senza uso di preservativo, riferito dal 77% di coloro che hanno dichiarato di consumare droghe durante il sesso. La maggior parte di questi uomini era in terapia antiretrovirale e aveva una carica virale non rilevabile. Chi praticava "chemsex" aveva più probabilità di aver avuto rapporti anali non protetti.
Circa la metà degli uomini che riferiva questa pratica aveva recentemente avuto una infezione sessualmente trasmessa (IST) e il 9% presentava una coinfezione con il virus dell'epatite C.
"L'indagine evidenzia la necessità di interventi di sensibilizzazione sul rischio della trasmissione dell'HIV e di altre IST tra uomini che consumano droga durante il sesso", hanno commentato i ricercatori.
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Monitoraggio neurologico
Un simposio del CROI intitolato "A beautiful mind: keeping it" ['Una mente bellissima: per mantenerla tale'] ha gettato uno sguardo sul futuro del monitoraggio neurologico per le persone HIV-positive.
Grazie ai progressi del trattamento antiretrovirale, la demenza AIDS-correlata e il disturbo neurocognitivo HIV-associato (HAND) sono oggi eventi rari.
Al simposio, però, si è parlato di un nuovo spettro di disturbi neurologici che colpiscono le persone affette da HIV, tra cui quelli associati all'invecchiamento della popolazione HIV-positiva, alla coinfezione con l'epatite C e agli effetti collaterali di alcuni antiretrovirali.
Si è inoltre discusso delle possibili modalità di monitoraggio della salute neurologica della persona con HIV.
Sono state individuate delle linee di ricerca per l'indagine del ruolo svolto dal liquido cerebrospinale (il 'liquor'), vagliando possibili strategie per il trattamento dell'HIV in esso.
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Dolutegravir sicuro ed estremamente efficace nei bambini più grandi
Un regime antiretrovirale a base dell'inibitore dell'integrasi dolutegravir (Tivicay) si è mostrato sicuro ed efficace per i bambini di età compresa tra i sei e i dodici anni.
C'è urgente bisogno di opzioni terapeutiche efficaci per il trattamento di seconda e terza linea dei bambini affetti dal virus dell'HIV che hanno sviluppato farmacoresistenze dopo un fallimento terapeutico con un regime a base di un NNRTI o un inibitore dell'integrasi.
Scopo dei ricercatori era verificare sicurezza ed efficacia di una combinazione dell'inibitore dell'integrasi dolutegravir e altri due farmaci, selezionati alla luce della storia terapeutica del paziente e dopo aver eseguito un test di resistenza ai farmaci antiretrovirali.
Dopo 48 settimane di trattamento, l'80% dei giovani pazienti presentava una carica virale inferiore alle 400 copie/ml, e il 74% era riuscito ad abbatterla a livelli non rilevabili. Sono inoltre stati osservati buoni aumenti dei CD4 e non sono stati riferiti effetti collaterali gravi.
Sono attualmente in corso ulteriori studi per accertare sicurezza ed efficacia del dolutegravir in bambini di età inferiore.
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Profilassi con cotrimoxazolo per bambini HIV-negativi
Potrebbe non essere necessario ricorrere alla profilassi con cotrimoxazolo (Septrin) nei bambini esposti al virus dell'HIV ma non infettati, secondo un nuovo studio.
È dimostrato che l'assunzione di questo antibiotico è un modo efficace, sicuro ed economico per ridurre i tassi di morbilità e mortalità nei bambini con HIV, soprattutto in zone ad alto tasso di malaria e altre gravi infezioni batteriche.
In questi contesti, il farmaco è raccomandato per tutti i bambini nati da madri HIV-positive, e il trattamento va proseguito fino a quando non è possibile escludere che si verificherà una trasmissione del virus al bambino (cioè fino al termine dell'allattamento).
I bambini nati da madri HIV-positive (esposti ma non infettati) hanno tassi di mortalità più elevati di quelli non esposti al virus. I ricercatori volevano stabilire se ci fosse un effettivo beneficio nel proseguire la terapia con questo farmaco.
È stato perciò condotto uno studio randomizzato da cui è emerso che la terapia non si mostrava in grado di migliorare la sopravvivenza né gli outcome clinici in un periodo di 18 mesi. Si sono osservati tassi di mortalità simili nei bambini a cui è stato somministrato il cotrimoxazolo e in quelli che invece hanno ricevuto un placebo, e anche tra i tassi di ospedalizzazione e anemia non si sono riscontrate sostanziali differenze.
Il farmaco si è comunque dimostrato ben tollerato.
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Allegato: CROI 2016 - Terzo Bollettino

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