CROI 2015 - Terzo Bollettino

CROI 2015LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XXII Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche, in corso a Seattle, negli Stati Uniti, dal 23 al 26 febbraio 2015.

 

 

TERZO BOLLETTINO

Epatite C, alti tassi di cura in pazienti HIV+ con due regimi senza interferone

È di ben 95% il tasso di cura dell'epatite C ottenuto con due regimi della durata di 12 settimane a base di due farmaci privi sia di interferone che ribavirina in pazienti con coinfezione HIV/HCV. Lo dicono due studi presentati questa settimana al CROI.
Il primo è un regime a base di sofosbuvir più ledipasvir (nella coformulazione Harvoni), prodotto da Gilead; il secondo invece è costituito da sofosbuvir (Sovaldi) più daclatasvir (Daklinza), quest'ultimo prodotto da Bristol-Myers Squibb. Sia il ledipasvir che il daclatasvir sono due inibitori dell'NS5A.
In ambo gli studi, i tassi di risposta nei soggetti con coinfezione sono risultati non inferiori a quelli ottenuti in altri studi con pazienti affetti dal solo virus HCV. Sono dati che vanno ulteriormente a supportare le recenti linee guida sul trattamento dell'epatite C, in cui si raccomanda che nel trattamento di questa patologia epatica non si faccia differenza in base allo stato sierologico del paziente.
La combinazione sofosbuvir più ledipasvir (Harvoni) è stata sperimentata in uno studio in aperto non randomizzato condotto su 335 pazienti con coinfezione. I criteri di ammissione erano molto ampi, e tra i partecipanti c'era anche, rispetto a molti altri studi, una maggior quantità di gruppi notoriamente difficili da trattare (come pazienti che già in passato non avevano risposto al trattamento o pazienti cirrotici). Quasi tutti i partecipanti erano affetti da HCV di genotipo 1; oltre la metà avevano già avuto dei fallimenti terapeutici e i tre quarti di loro presentavano varianti genetiche sfavorevoli dell'IL28B. Tutti assumevano la terapia antiretrovirale e la maggior parte aveva carica virale non rilevabile.
I partecipanti hanno assunto una compressa monogiornaliera per 12 settimane, dopodiché sono stati seguiti al follow-up per verificare che ci fosse risposta virologica sostenuta per altre 12 settimane (SVR12), ossia che il virus dell'epatite C restasse stabilmente irrilevabile. Il complessivo tasso di SVR12 ottenuto in questi pazienti è stato del 96%, un dato affine a quello registrato per pazienti con monoinfezione. Altri fattori come un trattamento pregresso oppure la presenza di cirrosi epatica o di varianti resistenti dell'NS5A non hanno mostrato di incidere significativamente sul tasso di cura.
Va rilevato tuttavia che i tassi di SVR12 sono stati leggermente inferiori nei partecipanti di etnia nera, un dato che non trova corrispondenza negli studi su pazienti monoinfetti. Una possibile spiegazione – da verificare – è che nei pazienti che assumono il ledipasvir insieme agli antiretrovirali la risposta farmacologica possa essere influenzata da fattori genetici.
Per lo studio su sofosbuvir (Sovaldi) più daclatasvir (Daklinza), sono invece stati arruolati 151 pazienti coinfetti naive al trattamento, che sono stati randomizzati per ricevere un ciclo di trattamento di 8 oppure 12 settimane; altri 52 partecipanti non naive hanno invece tutti assunto il trattamento per 12 settimane. Quasi tutti assumevano la terapia antiretrovirale e avevano carica virale HIV non rilevabile.
La maggior parte presentava HCV di genotipo 1a, ma sono stati inclusi anche pazienti con genotipi 2/6: uno dei vantaggi del daclatasvir, infatti, è proprio quello di essere efficace con svariati genotipi, mentre il ledipasvir agisce principalmente contro il genotipo 1.
Si sono registrati tassi di cura meno elevati nei partecipanti randomizzati per assumere la compressa monogiornaliera per 8 settimane (SVR12 del 76%), mentre il ciclo di trattamento di 12 settimane ha dato ottimi risultati, con una SVR12 del 96% nei pazienti naive e del 98% in quelli non naive. I dati sono risultati simili per tutti i genotipi.
Entrambi i regimi sperimentati hanno mostrato di essere generalmente sicuri e ben tollerati.

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Non hanno impatto i programmi per l'astinenza sovvenzionati dal PEPFAR

Una serie di programmi volti a promuovere l'astinenza e la fedeltà di coppia nell'Africa subsahariana non hanno praticamente avuto alcun impatto sul comportamento dei partecipanti in 14 paesi, nonostante un investimento di quasi 1,3 miliardi di dollari da parte degli Stati Uniti: lo dimostra un'analisi preliminare dei dati sul comportamento sessuale raccolti.
Il PEPFAR (Piano Presidenziale di Emergenza contro l'AIDS) è stato lanciato nel 2004, con la richiesta da parte del Congresso USA che una quota fissa dei fondi venisse destinata a programmi per promuovere l'astinenza sessuale, la posticipazione dei primi rapporti e la fedeltà di coppia. Il piano ha sovvenzionato anche programmi che promuovevano la riduzione del numero di partner. Per quanto possa essere sensata dal punto di vista epidemiologico l'ipotesi che non avere i primi rapporti troppo presto e ridurre l'attività sessuale possa far diminuire le possibilità di contrarre l'HIV, specialmente per le ragazze, a tutt'oggi non ci sono interventi di comprovata efficacia per raggiungere tali obiettivi.
Gli autori hanno raffrontato le tendenze nel comportamento sessuale rilevate in indagini demografiche e sanitarie in 14 paesi chiave del PEPFAR con quelle di otto altri paesi nordafricani dove i contenuti degli interventi per la prevenzione dell'HIV non sono stati influenzati dal PEPFAR.
In entrambi i gruppi di paesi è stata registrata la tendenza, per gli uomini, ad avere meno partner sessuali, ma i ricercatori non sono riusciti a rilevare modifiche del comportamento che potessero essere messe in diretta relazione con il PEPFAR, neppure nei paesi in cui i fondi elargiti sono stati più cospicui.

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Nuova formulazione del tenofovir: pari efficacia e maggiore sicurezza

Il tenofovir alafenamide (TAF), nuova formulazione che mantiene basse concentrazioni nel sangue ma raggiunge alti livelli nelle cellule, ha un'efficacia pari a quella del suo predecessore, il tenofovir disoproxil fumarato (TDF). E, inoltre, ha meno effetti collaterali del TDF su reni e ossa.
Il tenofovir disoproxil fumarato (Viread) è uno degli antiretrovirali più diffusi. È un componente della coformulazione Truvada e dei regimi monocompressa con Atripla, Eviplera/Complera e Stribild. Si tratta di un farmaco altamente efficace e generalmente sicuro e ben tollerato, ma in alcuni pazienti può dare problemi a reni o ossa.
Il nuovo pro-farmaco TAF, invece, rilascia più efficacemente il principio attivo – il tenofovir difosfato – nelle cellule infettate dal virus dell'HIV, raggiungendo sufficienti livelli intracellulari a dosaggi inferiori: quindi le concentrazioni plasmatiche sono più basse e di conseguenza reni, ossa e altri organi e tessuti sono meno esposti.
Mentre saranno presto disponibili in molti mercati occidentali versioni generiche meno costose del tenofovir disoproxil fumarato, il TAF è un prodotto nuovo su cui il produttore Gilead gode dell'esclusiva brevettuale.
Alla Conferenza sono stati presentati dati che mettevano a confronto la coformulazione Stribild (elvitegravir, cobicistat, emtricitabina e TDF) con una coformulazione in cui il TDF era sostituito dal TAF. Alla sperimentazione hanno preso parte circa 1700 pazienti naive in Europa, Nord America, America Latina e Asia.
Dopo 48 settimane di trattamento, i due regimi hanno mostrato entrambi alti livelli di efficacia, il che dimostra che la coformulazione con TAF non è inferiore a quella con TDF. I tassi di soppressione virale hanno superato il 90% in entrambi i bracci dello studio, a prescindere da fattori come età, sesso, etnia, HIV-1 RNA e conta dei CD4. Meno dell'1% dei partecipanti di entrambi i bracci hanno sviluppato mutazioni di resistenza primaria.
Complessivamente, non si sono riscontrate differenze neanche nei tassi di effetti collaterali ed eventi avversi gravi.
Particolare attenzione è stata prestata agli effetti collaterali a carico dei reni. In confronto al TDF, con il TAF non si sono registrate interruzioni del trattamento a causa dell'insorgenza di complicanze renali, mentre notevolmente inferiore è stata la diminuzione dell'eGFR (la velocità di filtrazione glomerulare stimata); inferiori sono risultate anche proteinuria, albuminuria e proteinuria tubulare.
Per quanto riguarda la salute ossea, il TAF si è mostrato molto meno impattante sulla densità minerale ossea a livello della colonna vertebrale (perdite di almeno il 3% riscontrate nel 26% dei partecipanti, contro il 45% del gruppo del TDF) e dell'anca (perdite di almeno il 3% riscontrate nel 17% dei partecipanti, contro il 50% del gruppo del TDF).
La coformulazione studiata è stata sottoposta alle agenzie del farmaco statunitensi ed europee per essere approvata.
Gilead sta inoltre mettendo a punto una coformulazione di TAF ed emtricitabina alternativa al Truvada, che potrebbe essere impiegata anche nella profilassi pre-esposizione (PrEP).

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Le treatment cascades nei paesi africani

In Sudafrica è attivo il più ampio programma per l'accesso alle terapie antiretrovirali del mondo: da un'analisi della treatment cascade del paese, tuttavia, emerge la necessità di migliorare ancora la ritenzione in cura, soprattutto dei pazienti maschi e di quelli più giovani. Solo così sarà possibile sfruttare al meglio l'effetto preventivo della terapia.
Dei 2,5 milioni di uomini HIV-positivi che vivono in Sudafrica, infatti, soltanto il 39% risulta agganciato al sistema sanitario; il 27% è attualmente in terapia antiretrovirale e il 19% ha raggiunto la soppressione virologica.
Per quanto riguarda le donne, invece, sono 3,9 milioni quelle HIV-positive; il 58% di loro risultano agganciate al sistema sanitario; il 38% di loro sono in terapia; e il 28% sono in soppressione virologica.
I giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni, invece, hanno meno probabilità di essere in terapia o aver raggiunto la soppressione virologica rispetto ai pazienti più adulti, malgrado i tassi di invio alle cure siano simili.
Un secondo studio, basato su dati provenienti da tre comunità in Kenya, Malawi e Sudafrica, sembra indicare che – per massimizzare il potenziale preventivo delle terapie – gli sforzi volti ad ampliare l'accesso al trattamento debbano concentrarsi in primo luogo sui pazienti che presentano livelli più elevati di carica virale – ossia praticamente quelli che sono già considerati eleggibili per ricevere il trattamento secondo le linee guida attualmente in vigore.
Sono circa 19.000 le persone che hanno partecipato a quest'indagine, e di esse poco più di 4000 sono risultate positive al test per l'HIV. La maggior parte di coloro che ha avuto diagnosi positiva sarebbe già eleggibile per il trattamento secondo le linee guida nazionali, seppur con delle differenze da paese a paese a causa dei diversi criteri di inclusione (il 60% in Kenya, il 69% in Sudafrica e l'80% in Malawi).
I ricercatori si sono concentrati sui valori di carica virale di coloro che non assumevano il trattamento per l'HIV. Ne è risultato che meno di un quarto degli individui non trattati con conte dei CD4 comprese tra le 500 e le 750 cellule/mm3 presentavano livelli di carica virale molto elevati (oltre le 100.000 copie/ml), che sono associati a un alto rischio di trasmissione del virus.
Al contrario, gli individui non trattati con conte dei CD4 inferiori alle 350 cellule/mm3 che presentavano livelli di carica virale così alti erano oltre la metà.
Questo fa pensare che, per sfruttare al massimo l'effetto preventivo delle terapie antiretrovirali, occorra intensificare gli sforzi per raggiungere coloro che già sono eleggibili per il trattamento secondo le attuali linee guida. Sarebbe un intervento più efficace dell'innalzamento della soglia dei CD4 per l'inizio del trattamento.
Al contempo, secondo uno studio presentato al CROI il giorno precedente, far iniziare il trattamento quando la conta dei CD4 è ancora superiore alle 500 cellule/mm3 è di enorme beneficio a livello di salute individuale.

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Nessun evento di trasmissione dell'HIV in studio su coppie omosessuali

Da una prima analisi dei risultati di uno studio con base in Australia condotto su coppie omosessuali di stato sierologico opposto (o sierodiscordanti), è stato rilevato come non si siano verificate finora trasmissioni del virus da parte del partner HIV-positivo. Questi dati osservazionali provenienti dallo studio Opposites Attract andrebbero a confermare quelli dell'analisi ad interim del più ampio studio PARTNER, presentati al CROI un anno fa, quando gli autori di PARTNER avevano riferito di non aver rilevato eventi di trasmissione in 16.400 rapporti anali (rapporti protetti compresi) avvenuti tra maschi omosessuali.
Per questo nuovo studio la fase di arruolamento è iniziata nella seconda parte del 2013 in tre città australiane (Sydney, Melbourne e Brisbane), ma adesso include anche partecipanti di Bangkok in Thailandia e Rio de Janeiro in Brasile. Gran parte dei partner HIV-positivi sono in terapia antiretrovirale e hanno carica virale non rilevabile.
Durante il primo anno, sono state 152 le coppie che hanno fornito i loro dati, per un totale di 5905 rapporti anali riferiti. Finora, non si è verificato alcun evento di trasmissione all'interno delle coppie (cd. eventi di trasmissione linked).
Dato che il numero di soggetti arruolati finora è relativamente piccolo, si tratta di dati ancora gravati da qualche incertezza. Il fatto che non si siano verificate trasmissioni, infatti, non significa necessariamente che il rischio di trasmissione sia zero. Gli autori calcolano che, in questa popolazione, la percentuale più elevata di rischio di trasmissione nei rapporti anali non protetti con il partner HIV-positivo (indipendentemente dal livello di carica virale) sia di un 4%, che sale al 7% quando il partner HIV-negativo è recettivo.
Tuttavia, come per PARTNER, man mano che vengono raccolti altri dati è probabile che queste cifre scendano sempre di più a zero.

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Cala l'incidenza HIV in Uganda grazie alla circoncisione

L'avvio dei programmi per la circoncisione medica nella provincia rurale di Rakai, in Uganda, sta avendo un notevole impatto sul numero di nuove diagnosi di infezione da HIV negli uomini. Sono dati che provengono da uno dei siti dove è stato condotto uno studio randomizzato controllato della circoncisione, che mostrano come questa procedura possa veramente fare la differenza al di fuori del contesto sperimentale.
La percentuale di uomini non-musulmani che hanno effettuato l'intervento è salita dal 9% del 2007, anno di inizio dello studio, al 26% del 2011.
Dopo aver operato un aggiustamento includendo altri fattori che potrebbero aver avuto un impatto sul tasso di trasmissioni HIV (come per esempio una maggior diffusione della terapia antiretrovirale), si è calcolato che ogni aumento del 10% nell'espansione dei programmi per la circoncisione corrispondeva a una riduzione del 12% dell'incidenza dell'HIV negli uomini.
Non diminuisce invece per adesso l'incidenza dell'HIV nelle donne.

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Allegato: CROI 2015 - Terzo Bollettino

 

La traduzione dei bollettini è a cura di LILA Onlus, con il sostegno del Circolo Aziendale GD.
GD

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