CROI 2018 - Primo Bollettino

CROI 2018LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XXV Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche - CROI 2018, in corso a Boston, negli Stati Uniti, dal 4 al 7 marzo 2018.

 

 

 

 
PRIMO BOLLETTINO

Un anticorpo sperimentale con un agonista del TLR7 mantiene la soppressione virale nei primati
Con un trattamento a base di un anticorpo neutralizzante ad ampio spettro associato a un farmaco immunostimolante è stata ottenuta nei primati una remissione virale a lungo termine dopo la sospensione della terapia antiretrovirale (ART): sono i risultati di uno studio presentato alla 25° Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche (CROI 2018) in corso questa settimana a Boston, Stati Uniti.
Lo studio è stato condotto su macachi rhesus infettati con un virus ibrido uomo-scimmia noto come SHIV. Durante la fase acuta dell’infezione agli animali si è iniziato a somministrare una combinazione di tre antiretrovirali; trascorsi due anni dal momento in cui avevano raggiunto la soppressione virale, è stato loro iniettato l’anticorpo neutralizzante ad ampio spettro PGT121 (cinque dosi, ogni due settimane) e l’agonista del TLR7 GS-9620 (dieci dosi, ogni due settimane), trattando invece un gruppo di controllo con un placebo. Quattro mesi dopo l’ultima infusione di PGT121 e GS-9620 è stata sospesa la somministrazione agli animali della ART.
PGT121 è appunto un anticorpo neutralizzante ad ampio spettro diretto contro la regione V3 della glicoproteina di rivestimento presente sull’involucro esterno sia dell’HIV che del SIV, o virus dell’immunodeficienza delle scimmie, un parente stretto dell’HIV che colpisce i primati. GS-9620 è invece un agonista del TLR7 in grado di stimolare i cosiddetti recettori toll-like presenti nelle cellule immunitarie, che giocano un ruolo chiave nella risposta immunitaria innata, essendo in grado di riconoscere i virus e far scattare le difese dell’organismo. Attivando il TLR7 si potenzia l’attività dei linfociti T, delle cellule natural killer e di altre cellule del sistema immunitario. Si tratta di una strategia terapeutica detta 'kick and kill', volta a riattivare le cellule infette latenti nei reservoir virali per poi coadiuvare farmacologicamente la risposta immunitaria dell’organismo allo scopo di distruggerle.
Il trattamento consente di ritardare considerevolmente e controllare il rebound virale dopo l’interruzione della somministrazione di antiretrovirali. I macachi del braccio di sperimentazione hanno mantenuto la carica virale irrilevabile senza l’ausilio di farmaci antiretrovirali per un periodo mediano di 112 giorni, e cinque degli undici animali così trattati erano ancora in soppressione virale dopo sei mesi.
Anche quando il virus è tornato rilevabile, i macachi del gruppo sperimentale presentavano comunque valori inferiori sia di carica virale al setpoint che di DNA nei linfonodi, rispetto a quelli del gruppo di controllo trattato con placebo: ciò sembrerebbe indicare che il reservoir virale si sia ridotto e che il sistema immunitario riesca a tenere maggiormente a bada il virus.
Si tratta della prima evidenza sperimentale di una strategia di cura in grado di attivare il controllo immunitario nei primati: ottenere risultati simili nell’uomo sarebbe un progresso enorme.
Il dott. Dan Barouch del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston ha commentato i risultati del proprio lavoro con grande cautela. Malgrado questo approccio si sia mostrato in grado di frenare il rebound virale per svariati mesi, ha sottolineato, non si può infatti escludere la possibilità che il virus sia ancora presente nell’organismo e si riattivi a mesi o magari anche anni di distanza. Neppure i più sensibili test diagnostici tra quelli attualmente disponibili riescono infatti a rilevare tutte le cellule virali latenti, ha spiegato il ricercatore.
Gilead Science sta attualmente lavorando a un primo trial di fase I per sperimentare questa combinazione farmacologica sull’uomo.
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Donne più a rischio di contrarre l’infezione da HIV in gravidanza e nel post-parto
Da un’analisi presentata a CROI 2018 emerge che le donne sono quasi tre volte più a rischio di contrarre l’infezione da HIV durante la gravidanza in confronto ad altri periodi della loro vita, e ben quattro volte di più durante i sei mesi successivi al parto.
Finora gli studi in merito sono stati inconclusivi: in una meta-analisi era stato rilevato che il rischio di contrarre l’HIV in gravidanza aumentava del 30%, ma secondo due degli studi in essa compresi questo rischio era quasi doppio, mentre altri non registravano alcun aumento del rischio.
Per questa nuova analisi sono stati presi in considerazione i dati di 2751 donne HIV-negative con partner maschio HIV-positivo che partecipavano a uno di due programmi per la prevenzione HIV, Partners in Prevention e Partners PrEP. Gli studi sono stati condotti in un totale di sette paesi africani.
Le donne avevano rapporti sessuali più o meno frequenti a seconda dei diversi stadi riproduttivi: in media, avevano più rapporti, e più rapporti non protetti, nel primo periodo della gravidanza rispetto a quando non erano incinte, mentre ne avevano meno a gravidanza più avanzata e nei sei mesi successivi al parto.
Durante il follow-up, 82 partecipanti hanno contratto l’HIV dal partner principale, con un’incidenza annuale dell’1,62%. I tassi grezzi di incidenza variavano a seconda dello stadio riproduttivo.
La dott.ssa Renee Heffron della University of Washington ha dunque calcolato il rischio di infezione da HIV per 1000 rapporti sessuali. Come caso di riferimento è stata presa una 25enne che non assumeva profilassi pre-esposizione (PrEP) e il cui partner aveva una carica virale di 10.000 copie/ml. Ecco le stime:

  • né in gravidanza né post-parto: 1,05 eventi di infezione ogni 1000 rapporti;
  • a inizio gravidanza (dalle 0 alle 13 settimane): 2,19 eventi di infezione ogni 1000 rapporti;
  • più avanti nella gravidanza (dalle 14 settimane al parto): 2,97 eventi di infezione ogni 1000 rapporti;
  • post-parto (fino a 6 mesi dopo il parto): 4,18 eventi di infezione ogni 1000 rapporti.

È possibile che la maggiore vulnerabilità all’HIV sia imputabile alle modificazioni ormonali che intervengono durante gravidanza e allattamento, ma serviranno ulteriori ricerche per comprendere secondo quali meccanismi. Si potrebbe raccomandare la PrEP nei periodi in cui le donne sono particolarmente esposte al rischio di contrarre l’infezione.
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Prevenzione TB, un mese di terapia combinata efficace quanto nove mesi di monoterapia
Un solo mese di trattamento con l’antibiotico rifapentina in combinazione con isoniazide è risultato efficace quanto il ciclo di nove mesi di monoterapia con isoniazide attualmente raccomandato per la prevenzione dell’insorgenza di tubercolosi (TB) in pazienti HIV-positivi: è quanto emerge da un ampio studio condotto a livello internazionale.
La terapia preventiva a base di isoniazide (IPT) è il trattamento raccomandato in molti paesi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per la prevenzione della tubercolosi nelle persone con HIV; eppure la copertura terapeutica a livello internazionale è estremamente carente. Una delle difficoltà più spesso citate che ostacolano l’ampliamento di questa copertura è la durata dei trattamenti, che può essere di sei o nove mesi, ma può anche arrivare a 36.
Lo studio A5279/BRIEF TB mirava a testare l’efficacia della terapia combinata con isoniazide e rifapentina assunta ogni giorno per un mese, contro una monoterapia con isoniazide assunta anch’essa ogni giorno ma per nove mesi. Eleggibili per il reclutamento in questo studio in aperto, multicentrico e randomizzato erano persone HIV-positive abitanti in zone con alti tassi di TB oppure risultate positive al test cutaneo della tubercolina.
A partecipare sono stati in totale 3000 individui provenienti da dieci diversi paesi, circa la metà dei quali donne, i due terzi neri, e metà in terapia antiretrovirale; la conta dei CD4 mediana era di 470 cellule/mm3, e un quinto dei partecipanti era reattivo al test cutaneo.
L’obiettivo dello studio era di verificare la non-inferiorità del regime combinato con isoniazide e rifapentina, e gli outcome primari erano infezione da TB attiva, decesso TB-correlato o decesso per altre cause.
Un endpoint primario dello studio è stato raggiunto da 32 partecipanti del braccio trattato con isoniazide/rifapentina e 33 di quelli trattati con la terapia profilattica standard con il solo isoniazide. Complessivamente, i tassi di incidenza si sono attestati rispettivamente allo 0,65 contro lo 0,67 per 100 persone-anno, il che comprova appunto la non inferiorità del ciclo più breve.
Il prof. Richard Chaisson della Johns Hopkins University di Baltimora ha affermato, durante il suo intervento alla Conferenza: “Questo ciclo di trattamento della durata di un solo mese potrebbe rappresentare una svolta per la prevenzione della TB nei pazienti HIV-positivi, perché combina due vantaggi: ha un’altissima probabilità di essere portato a termine e un’altissima probabilità di prevenire la tubercolosi.”
“Crediamo che si possa parlare di un risultato sufficientemente netto e sufficientemente rappresentativo da essere usato come base per la redazione di nuove linee guida.”
Restano tuttavia due grandi barriere alla sua implementazione su larga scala: i costi (72 dollari) e la disponibilità (una sola casa farmaceutica lo produce).
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Stati Uniti, alti i tassi di infezione HIV tra i giovani maschi gay e ispanici
Da uno studio statunitense dei dati relativi alle sequenze genetiche condotto in reti con tassi particolarmente alti di HIV è emerso che ad avere i tassi più elevati sono quei cluster in cui sono presenti più giovani maschi omosessuali – il che di per sé non era inatteso – ma anche più ispanici che neri. Potrebbe essere il segnale di un cambiamento delle caratteristiche demografiche dei gruppi più a rischio di infezione da HIV negli Stati Uniti.
I Centri per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie (CDC) americani ormai analizzano di routine le sequenze genetiche dei ceppi di HIV nelle persone con una nuova diagnosi. L’analisi filogenetica serve a identificare i cosiddetti cluster di infezione – vale a dire gruppi di due o più persone con ceppi virali così simili che devono avere le stesse origini – in modo da individuare eventuali cluster insolitamente “attivi”, ossia dove le nuove infezioni sono frequenti.
Questo consente alle autorità sanitarie locali di intervenire, per esempio, offrendo la possibilità di eseguire il test, un aggancio alle cure o l’accesso alla profilassi pre-esposizione (PrEP).
Dall’analisi di 60 cluster in cui si erano registrate almeno cinque nuove diagnosi HIV nell’arco di 12 mesi, i CDC hanno riscontrato un tasso di trasmissione undici volte superiore alla media nazionale negli Stati Uniti (44 eventi di trasmissione per 100 persone-anni contro 4 eventi di trasmissione per 100 persone-anni).
In questi cluster si ritrovavano con più probabilità, rispetto a individui appartenenti ad altre fasce di popolazione rappresentate nel database dei CDC, sia uomini che fanno sesso con uomini (MSM) (83 contro 59%) che persone al di sotto dei 30 anni (70 contro 42%).
Il dato però forse più sorprendente è che gli appartenenti a questi cluster fossero più probabilmente ispanici (38 contro 27%) e meno probabilmente neri (31 contro 41%).
Questo fa pensare che stia iniziando a cambiare la composizione etnica dei gruppi più a rischio di contrarre l’HIV negli Stati Uniti. “Questi dati sembrano indicare che l’HIV si stia diffondendo molto rapidamente all’interno delle reti in cui sono presenti giovani MSM, soprattutto ispanici”, ha dichiarato Anne Marie France dei CDC alla Conferenza.
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Esame dei livelli di antiretrovirali nei capelli attendibile predittore di risposta al trattamento
Secondo uno studio presentato a CROI 2018, l’esame del livello di antiretrovirali in un campione di capelli sarebbe il più efficace predittore della risposta alle terapie anti-HIV.
È ben noto che l’aderenza al trattamento è un fattore chiave per il successo terapeutico, ma quantificare questa aderenza non è facile. Spesso le dichiarazioni dei pazienti non sono accurate, e anche l’analisi del sangue o delle urine può rilevare solo i livelli di farmaco presenti nei giorni immediatamente precedenti al test. Quindi magari un paziente può anche non seguire assiduamente la terapia ma assumere una dose in vista di una visita di controllo (si parla a tale proposito di ‘white coat effect’, o effetto del ‘camice bianco’).
L’esame dei livelli di farmaci nei capelli, che consiste nel semplice prelievo di un campione di capelli del paziente, riflette invece l’aderenza media nel corso del tempo.
Nello studio ACTG A5257 sono stati messi a confronto diversi regimi antiretrovirali, a base di atazanavir/ritonavir oppure darunavir/ritonavir o raltegravir, sempre in combinazione con emtricitabina e tenofovir disoproxil fumarato, in pazienti che iniziavano per la prima volta il trattamento. Sono stati prelevati campioni di capelli da 599 partecipanti nel corso di 2192 visite di controllo.
Per tutti e tre i regimi sono stati osservati risultati similari. Il tasso di fallimento virologico a due anni era del 3% per i partecipanti che presentavano livelli più alti di farmaco; saliva al 6% per quelli della fascia intermedia; e arrivava addirittura al 26% per quelli con i livelli più bassi.
Se anche il capello era trattato, tinto, lisciato o permanentato l’esame non ne risentiva, mentre se decolorato i risultati variavano leggermente. La correlazione tra aderenza dichiarata dal paziente e livelli misurati nei campioni di capelli è risultata debole.
Un altro studio ha invece indagato un approccio diverso alla misurazione dei livelli dei farmaci, mirato a individuare variazioni nell’andamento dell’aderenza del tempo paragonando i livelli delle porzioni di capello più vicine alla cute con quelle più lontane. Potrebbe essere un metodo promettente per monitorare la sieroconversione HIV negli individui che assumono la profilassi pre-esposizione (PrEP).
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Screening per la TB, offerta integrata riduce i decessi dei pazienti HIV+
Secondo quanto emerge da due ampi studi, lo screening per la tubercolosi (TB) con un assiduo follow-up dei casi di TB in pazienti che iniziano le terapie antiretrovirali (ART) e lo screening con esame delle urine per i pazienti HIV-positivi ospedalizzati possono ridurre considerevolmente il numero di decessi e aumentare i tassi di trattamento della TB tra le persone con HIV.
Lo studio XPRES, condotto in Botswana, è un riesame retrospettivo dei risultati ottenuti con la graduale sostituzione dell’analisi microscopica dello striscio con il test Xpert MTB/RIF per la diagnosi della tubercolosi: gli autori hanno tuttavia concluso che a fare la differenza è stata piuttosto l’offerta di un pacchetto di interventi integrati.
Nello studio sono state raffrontate tre tipologie di offerta di screening, scaglionandole nel tempo man mano che diveniva disponibile il test Xpert MTB/RIF: la metodologia diagnostica standard; la stessa metodologia standard ma con in più altri interventi come maggiore offerta di sostegno da parte del personale medico e la ricerca attiva dei pazienti che non si presentavano agli appuntamenti; e infine i due interventi precedenti ma con l’offerta del test Xpert MTB/RIF al posto del tradizionale striscio.
La mortalità a sei mesi (outcome primario) è risultata ridotta quando venivano offerti interventi aggiuntivi, ma era una riduzione che diveniva statisticamente rilevante solo per la terza tipologia di offerta. Gli autori hanno allora preso in considerazione la mortalità a 12 mesi, e qui è emersa una significativa riduzione del rischio di morte sia per la seconda tipologia (rapporto di rischio aggiustato 0,72) che per la terza (0,76), senza che ci fossero sostanziali differenze tra le due.
I ricercatori hanno quindi concluso che a fare la differenza non era tanto lo strumento diagnostico utilizzato, ma la componente umana. Nel breve termine, un test diagnostico veloce e sensibile può senz’altro dare buoni risultati, ma quello che è contato veramente è stato l’impegno degli operatori sanitari per diagnosticare i casi di TB e per mantenere i cura questi pazienti.
L’altro studio, denominato STAMP, è stato invece condotto in Sudafrica e Malawi, e ha confermato che l’esame del lipoarabinomannano (LAM) nelle urine migliora i tassi di diagnosi e trattamento della tubercolosi e riduce la mortalità in pazienti in ART ospedalizzati.
In un paziente con una patologia HIV-correlata in stadio avanzato può essere difficoltoso giungere a una diagnosi certa della tubercolosi attiva, e spesso si rende necessario ricorrere all’esame colturale. L’esame del LAM nelle urine può velocizzare la diagnosi e il suo impiego ha mostrato di ridurre il rischio di morte nei pazienti HIV-positivi ospedalizzati con conte dei CD4 inferiori alle 100 cellule/mm3. Non si sapeva invece se questa metodologia diagnostica potesse rappresentare un valore aggiunto in quei contesti dov’è disponibile il test Xpert MTB/RIF.
Per lo studio sono stati reclutati pazienti HIV-positivi ospedalizzati che sono stati randomizzati in due bracci, quello del test standard (esame dell’espettorato con Xpert MTB/RIF) e quello di intervento (esame dell’espettorato con Xpert MTB/RIF ed esame del LAM nelle urine e Xpert MTB/RIF).
Complessivamente, la mortalità a 56 giorni (outcome primario) è stata del 21,1% nel braccio del test standard e del 18,3% nel braccio di intervento, anche se si tratta di una differenza poco rilevante in termini statistici (p = 0,07). Una riduzione statisticamente rilevante in termini di mortalità è stata invece osservata negli individui con conte dei CD4 inferiori alle 100 cellule/mm3, con valori basali di emoglobina sotto gli 8 g/dl oppure con sospetta infezione da TB al momento del ricovero.
I partecipanti del braccio di intervento avevano maggiori probabilità di ricevere una diagnosi e un trattamento per la tubercolosi.
I risultati di questo studio, hanno concluso gli autori, vanno a sostegno dell’ampliamento dei programmi di screening della TB con esame delle urine per tutti i pazienti HIV-positivi ospedalizzati.
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Webcast dell’intervento in cui è stato presentato lo studio XPRES sul sito ufficiale della Conferenza 
Webcast dell’intervento in cui è stato presentato lo studio STAMP sul sito ufficiale della Conferenza 


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