E’ stata Padova la sede del 17esimo Congresso Nazionale di ICAR, Italian Conference on AIDS and Antiviral Research, il più importante appuntamento italiano sulle malattie infettive e uno dei più rilevanti a livello internazionale. Ospitata dal 21 al 23 maggio 2025 nel moderno e funzionale centro congressi della città veneta, per la prima volta nella regione, la Conferenza ha adottato quest’anno un claim che vuole anche sancire un impegno della comunità scientifica e delle communities che promuovono l’evento: “No Boundaries in infection Research and Care” ossia: “Nessuna frontiera tra ricerca e cura delle infezioni”.
La Presidenza del Congresso è stata affidata per quest’anno ad Annamaria Cattelan e Saverio Parisi (Padova) a Stefano Rusconi (Legnano, Mi) e a Paolo Meli (Bergamo) del CICA, in rappresentanza delle communities. Questo il suo bilancio dei lavori, nell’intervista di Laura Supino.
Circa 1300 i partecipanti tra clinici, giovani ricercatori, infermieri, operatori sociali, volontari, 63 sono state le sessioni scientifiche, 363 gli abstract presentati con coordinamento affidato al Dottor Antonio Di Biagio, infettivologo dell’ospedale San Martino di Genova. E’ lui, in questa intervista, condotta ancora da Laura Supino, a fornirci un quadro complessivo dei temi scientifici e sociali più rilevanti di questo Congresso. La LILA ha partecipato presentando tre Lavori e contribuendo ad altri cinque. Al termine dell’articolo titoli e link.
Nel ricordo di Massimo Oldrini
Per noi della LILA questa edizione di ICAR è stata, soprattutto, la prima senza il nostro Massimo Oldrini. A Lui, la Conferenza ha voluto dedicare nella mattinata del 22 maggio un momento di omaggio e di ricordo. Il memorial è stato affidato ad Alessandra Cerioli, amica di Massimo e attivista storica della LILA già Presidente della nostra associazione e da anni anche attivista di spicco di EATG.
Cerioli ha ricordato con commozione la storia di Massimo, iniziata come utente della LILA nei primissimi anni ’90 e poi segnata dall’appassionato e brillante attivismo, prima come coordinatore di gruppi di auto-aiuto, poi come Presidente di LILA Milano, di LILA Nazionale, della Consulta AIDS presso il Ministero della Sanità; Cerioli ha voluto ricordarne il ruolo in altre associazioni, in cui ha speso la sua grande competenza nel campo delle politiche sulle droghe. “Massimo –ha ricordato Alessandra- aveva dentro di sé una enorme capacità di empowerment che sapeva trasmettere agli altri. E’ stato un attivista di primissimo piano ma senza l’ego preponderante che caratterizza molti attivisti e attiviste”. Il ricordo di Alessandra ha poi lasciato il posto al bellissimo video prodotto da LILA Milano con la regia di Simone Pera, proprio in ricordo di Massimo. Il nome di Massimo Oldrini è ricorso durante i lavori anche nella presentazione di progetti e studi di cui è stato ispiratore; a farlo è stato soprattutto l’amico di tanti anni, Massimo Farinella, del Mario Mieli di Roma, attuale Presidente della sezione M del CTS (Comitato Tecnico Sanitario) su HIV/AIDS presso il Ministero della Sanità. L’assenza di Massimo ci pesa in ogni istante ma ICAR ci ha anche confermato quale eredità viva e pulsante ci abbia lasciato.
HIV, Tumori, inclusione nei trials oncologici: un tema emergente
Nella sessione inaugurale del mercoledì sera, nella lecture dedicata ad un altro amico scomparso, Giulio Maria Corbelli, è stata ancora Alessandra Cerioli a collegare la memoria e la storia di alcuni storici attivisti scomparsi di recente ad un nodo emergente e cruciale in tema di diritto alla salute: quella della maggiore esposizione delle persone con HIV over 50 a tumori non tipici dell’HIV. Nella sua relazione “Cancer in PWH, from real life to a clinical trial: bridging the gap in science and care”, Cerioli è partita dalla realtà, segnata proprio dalla dolorosa scomparsa dello stesso Giulio Corbelli, di Massimo Oldrini, di Stefano Pieralli e dalla sua stessa esperienza di paziente oncologica per sottolineare l’urgenza di modelli di cura, di politica sanitaria e di ricerca multidisciplinari, esenti da stigma e più attenti a questa realtà. “I tumori non AIDS correlati, complice un’alta infiammazione, stanno impattando fortemente sul nostro gruppo di popolazione –ha detto Cerioli- e l’esclusione delle persone con HIV dai trial clinici è una barriera enorme per l’elaborazione di standard of care adeguati alle esigenze delle PHV con tumore; l’accesso ugualitario alle cure ne risulta fortemente pregiudicato”. Il progetto BELONG elaborato in seno all’EATG, con il suo Position Paper, un progetto di cui Cerioli è stata ed è protagonista, punta proprio a combattere la prassi, quasi sempre arbitraria, dell’esclusione dai trial clinici delle persone con HIV ma anche quella di altri gruppi di popolazione come le donne. Una ricerca risalente al 2017 dell’American Society Cancer Research, citata da Cerioli- dimostrò l’altissimo livello di esclusione ma anche l’impatto positivo che avrebbe potuto avere invece rimuovere queste barriere. Nel 2020 vennero stilate da FDA delle linee guida che indicavano criteri di eleggibilità scientifici, basati non sullo stato sierologico ma sulle condizioni cliniche oggettive dei partecipanti con HIV, a partire dalle condizioni immunitarie (assenza di AIDS) e dall’esposizione pregressa a patologie opportunistiche . Nel 2022, tuttavia, il 50% dei trial clinici prevedeva ancora l’esclusione delle persone con HIV. “Accade così –ha denunciato Cerioli- che trattamenti come l’immunoterapia , nuova frontiera della ricerca, non siano testati proprio sulle persone che più sono esposte al rischio di patologie oncologiche. Se ci sono timori per l’impatto che queste terapie potrebbero avere su questi pazienti –ha detto ancora Cerioli- il momento per verificarlo è proprio quello della fase di studio di questi farmaci. Invece quello che sta accadendo è che la sperimentazione avviene, di fatto, direttamente nella pratica clinica”. Cosa servirebbe dunque per approntare delle linee guida che favoriscano l’inclusione delle persone con HIV negli studi sui trattamenti oncologici? Ecco alcuni dei punti della “lista della spesa” stilata da Cerioli: indicare chiaramente la necessità di eseguite il test per l’HIV prima dell’arruolamento e, in caso di positività, non procedere all’esclusione ma alla verifica dello stato clinico della persone; fornire in merito al test e all’HIV informazioni non stigmatizzanti; giustificare ogni esclusione; prevedere l’inclusione nei trial di persone con HIV valutandole secondo i criteri clinici oggettivi indicati dalla società oncologica USA; raccogliere dati, molti dati: sulla sopravvivenza, sulla qualità della vita, sulla tollerabilità e sicurezza dei trials, prima durante e dopo i trattamenti oncologici, creare trials oncologici dedicati alle persone con HIV che valutino l’andamento della carica virale, dei CD4 e CD8, gli effetti di eventuali sospensioni della ART. Ha ricordato Cerioli come questo tipo di advocacy sia sta già condotta in passato rispetto alla coinfezione epatite C/HIV riportando un collettivo successo per la salute pubblica.
PrEP, Profilassi pre-Esposizione
Al tema della PrEP, la profilassi pre-esposizione sono stati dedicati anche quest’anno numerosi lavori. Nel simposio “Pioneers in HIV prevention with long-acting in PrEP” il Dottor Andrea Antinori, dello Spallanzani di Roma, ha fornito un’ampia panoramica delle difficoltà che ancora frenano in Italia e nel mondo l’utilizzo della PrEP. Sono circa 8 milioni nel mondo le persone che utilizzano la PrEP, secondo dati AVAC ma coloro che la usano stabilmente non superano i tre milioni e mezzo. Il target UNAIDS per il 2025 era ben più alto: 20 milioni. In Italia il target da raggiungere dovrebbe essere di 60/70mila persone invece gli utilizzatori stabili non sono più di 12mila e con quelli occasionali non si supera quota 16mila. Molto accentuate risultano le differenze regionali; il 63,2% è al nord, il 36,4% al centro e solo lo 0,4% al sud e nelle isole. Le popolazioni chiave che meno la utilizzano sono proprio quelle che avrebbero più bisogno di essere raggiunte: immigrati non regolari, sex workers, persone transgender per non parlare delle donne che rappresentano appena l’1,4% del totale. Il fenomeno delle “Missed opportunity”, le opportunità di prevenzione perse, resta dunque il più rilevante in merito alla PrEP assieme alla persistenza nell’utilizzo della profilassi. Uno studio francese, citato da Antinori (OMaPrEP study) e condotto su 185 pazienti con infezione recente da HIV ha provato come ben il 91% fosse stato considerato eleggibile per la PrEP ma non ne abbia usufruito una percentuale molto alta. Lo stigma, i pregiudizi razziali o sessuali degli operatori sanitari sono indicati dagli studi di tutto il mondo come le barriere principali nell’accesso e nel legame con i servizi. Il fatto che un 30% di chi utilizza la PrEP si rivolga a centri community-based suggerisce come il setting e il contesto del servizio siano fondamentali e vadano ripensati; La PrEP deve poter essere erogata da consultori, cliniche di salute sessuale, da medici che non siano per forza infettivologi; occorrono più servizi di telePrEP, più servizi community-based, servizi orientati alle donne e poi la PrEP Long Acting che potrebbe risolvere in gran parte i problemi di aderenza ai trattamenti, evidenziati soprattutto dalle donne. La PrEP, ha concluso Antinori, è lo strumento che più può concorrere al raggiungimento degli obiettivi UNAIDS entro il 2030.
Delle potenzialità della PrEP Long Acting per il raggiungimento dell’obiettivo zero infezioni ha parlato anche la professoressa Antonella Castagna del San Raffaele di Milano e Presidente di ICAR. Castagna ha ricordato come in Italia per la PrEP Long Acting lo scorso anno sia stato autorizzato Apretude, farmaco a base di Cabotegravir, con somministrazione intramuscolo ogni otto settimane. Il farmaco non è tuttavia ancora rimborsabile e questa è una grande barriera per il suo utilizzo. A dimostrare l’alta tollerabilità, l’alto gradimento e gli alti profili di sicurezza di Cabotegravir ci sono studi che hanno prodotto molti dati (HPTN 083 e 084). Il più importante riguarda proprio il successo di questo regime long acting risultato più alto tra le persone arruolate del 66% rispetto al regime orale. Negli studi erano state arruolate 2000 donne, di cui 350 in gravidanza. I dati hanno mostrato anche per questo target alti livelli di tollerabilità e sicurezza. La rimborsabilità della PrEP long Acting potrebbe dare, secondo Castagna, un deciso contributo all’obiettivo infezioni zero, soprattutto ora che le nuove diagnosi mostrano una rinnovata tendenza al rialzo. Tra i target privilegiati devono essere considerate le persone straniere che giungono e si stabiliscono nel nostro paese, soprattutto le giovani di donne che costituiscono negli ultimissimi anni una quota rilevante delle nuove diagnosi segnalate.
Tra i servizi più innovativi per l’offerta della PrEP c’è TelePrEP a cura di Fondazione LILA Milano, frutto di una intensa collaborazione con un team di medici. Si tratta di un servizio di telemedicina – ha spiegato nella sua relazione Lella Cosmaro, che opera esclusivamente online e che offre consulenza medica e counselling sulla PrEP, prescrizioni su esami e farmaci da prendere, informazioni sui servizi cui rivolgersi. Il progetto è iniziato quando la PrEP era prescrivibile, ma non rimborsabile e ora si è adeguato alle nuove esigenze. Tra il 2023 e il 2025 ha offerto consulenza a 389 persone, 168 quelle che hanno iniziato la PrEP tra le quali solo tre donne cisgender. 93 persone sono state inviate a servizi e check point sui territori di appartenenza mentre 70 sono rimasti in carico a TelePrEP. Tra chi utilizza il servizio LILA, ci sono persone che lavorano spesso o stabilmente all’estero, che non vogliono farsi vedere in ospedale o che non possono muoversi per vari motivi. I livelli di soddisfazione del servizio sono molti alti, segno di come flessibilità e riservatezza dell’offerta potrebbero favorire una diffusione di questa fondamentale strategia di prevenzione.
Studi in ambito socio-sanitario
Studi, ricerche ed esperienze di carattere socio-sanitario, condotte da communities, terzo settore, organizzazioni indipendenti ma anche dalle realtà più sensibili del servizio sanitario, hanno rappresentato, anche quest’anno, una quota rilevante di lavori. Tratto comune degli interventi illustrati: la capacità di proiettarsi sui territori e di raggiungere target non facilmente raggiungibili da servizi tradizionali, la capacità di offrire servizi di alta qualità ma anche flessibili, friendly, non burocratici e dunque privi di quelle barriere che troppo spesso caratterizzano le strutture pubbliche, con operatori pari, offerta di counselling e, soprattutto, non stigmatizzanti o giudicanti. Di seguito ne illustriamo alcuni.
Paola Sammarco, psicologa della Fondazione Villa Maraini di Roma, che opera all’interno della Croce Rossa, nella sua relazione “Fast track health path: screening, information and care of fragile people in Rome” ha illustrato le attività offerte da questa storica realtà romana per la promozione della salute tra le popolazioni più fragili della Capitale. Attiva dai primi anni ’90 la Fondazione nasce orientata in particolare alle esigenze delle persone con dipendenza da sostanze, gravate da un doppio stigma. Principi ispiratori: Riduzione del danno e rispetto dei diritti umani di tutti e tutte. “Da sempre riteniamo che la salute di queste persone vada tutelata indipendentemente dal fatto che decidano o meno di interrompere l’uso e l’abuso di sostanze” ha spiegato Sammarco. Negli anni, le attività degli ambulatori (aperti h 24, sette giorni su 7) e quelle di outreach sul territorio hanno intercettato altre popolazioni vulnerabili come sex workers, migranti, persone trans. Gli ambulatori della grande struttura di via Ramazzini accolgono decine e decine di persone al giorno senza alcun tipo di barriera, offrendo un ampio ventaglio di servizi a tutti i livelli. I test per HIV e HCV vengono offerti e proposti a tutt* “Proprio perché –ha spiegato ancora Paola Sammarco, si tratta di persone che incontrano molte difficoltà ad accedere ai servizi istituzionali”. In strada sono state raggiunte ben 2000 persone solo nell’ultimo anno. Un esame dei quasi 500 test rapidi proposti nel 2024 mostra che per il 56% si è trattato di drug users, una percentuale impensabile per i servizi tradizionali. Il 26% non era nato in Italia, l’82% non si era testato per HIV e HCV almeno da un anno. Bassa l’età media: 33 anni. Il 41% ha ricevuto i test in sede e il 52% in strada presso l’Unità di Strada. Alte le percentuali di test preliminarmente positivi, segno di quanto questi servizi siano in grado di raggiungere i target più esposti: il 2,2% per l’HIV e il 5,7% per HCV. Tra le persone risultate preliminarmente positive l’81% ha dichiarato di usare droghe, il 45% di aver scambiato materiali per la preparazione o l’assunzione di sostanze (inalazione o via endovenosa), il 45% ha dichiarato di aver avuto rapporti sessuali non protetti e solo il 18% ha dichiarato di conoscere la PrEP. A tutti vengono garantiti sostegno nell’accesso alle cure, counselling, assistenza medica, psicologica e sociale.
Chiara Soligo di ASA, Milano, ha illustrato un programma di assistenza e prevenzione dell’HIV/HCV/IST tra sex workers di una zona di Milano (via Fulvio Testi-via Novara) confermando le alte barriere incontrate da questo gruppo di popolazione nell’accesso alla salute, lo stigma subito, l’esposizione a violenze e soprusi. Il progetto prevede due uscite territoriali mensili con offerta di test, counselling e colloquio con infettivolog*. 52 i test offerti per HIV, HCV e sifilide nell’ultimo anno, non pochi rispetto al piccolo gruppo di popolazione su cui si è lavorato ma con un impatto ben più ampio su prevenzione e promozione della salute a partire dalla proposta di accedere alla PrEP. Il progetto prevede accompagnamento presso i servizi e per l’accesso alle terapie e supporto per la retention in care.
Pier Luigi Francesco Salvo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, ha presentato un’analisi retrospettiva condotta sulle donne transessuali che accedono all’ambulatorio del Gemelli. Tra le 78 donne esaminate, ben 76 provengono dal Sudamerica, solo 2 le cittadine italiane; 21 avevano già acquisito l’HIV prima di giungere in Italia. Il 76% aveva già una diagnosi di sifilide e il 50% si è perso al follow up. In generale il campione mostra un’alta fragilità multidimensionale: economica, psicologica, sociale. L’assunzione di ART risulta molto inferiore a quella di persone cisgender, pur in presenza di condizioni cliniche comparabili, il consumo di alcol è decisamente più alto. La metà delle donne che non sono tornate aveva una viremia superiore alle 50 copie; alta la prevalenza di infezioni pregresse: dalla sifilide alla TBC. “La mancata opportunità di cura di queste persone –ha spiegato Salvo- costituisce dunque un alto rischio personale ed epidemiologico rendendo necessario un mutamento di rotta”.
Quali sono, dunque, i fattori che pregiudicano l’accesso e il mantenimento in cura? Lo studio ha confermato come le donne transgender che vivono con HIV (TWLHIV) affrontino specifiche barriere nell’accesso alle cure e nel mantenimento del follow up: stigma sociale e istituzionale, Discriminazioni nei contesti sanitari, difficoltà socio-economiche. Un’altra barriera è rappresentata dal mancato soddisfacimento del complesso di cure di cui necessitano le persone transgender in HIV. Per questo, ha concluso Salvo, occorre pensare a servizi più orientati alle esigenze del target con percorsi clinici inclusivi, servizi gender-sensitive e programmi di supporto psico-sociale.
Caterina Pellegrino ha illustrato i risultati di uno studio sulle attività di testing verso persone under 24 condotte da diverse associazioni che aderiscono a Bergamo Fast Track City. Dal 2021 i giovani sotto i 24 anni che si sono testati in occasione di servizi e iniziative condotte dalla rete, per HIV, HCV e sifilide, sono stati 2877, età media 20 anni circa con un 2,3% di under 18. Il 50,4 indicava il sesso maschile, il 48,7 femminile, lo 0,5% transgender, lo 0,4% non binario. Il 29% delle persone ha eseguito i test presso il check point ma il restante 70% è stato intercettato grazie ad uscite sul territorio presso pub, luoghi di incontro, Università, alcune scuole o in occasione di eventi (concerti, pride ecc). Dai questionari emerge come solo il 20% ritenesse di aver corso dei rischi eppure ben il 47% ha dichiarato di non aver usato il profilattico durante l’ultimo rapporto sessuale. La consapevolezza risulta più bassa tra le ragazze e tra le persone transessuali rispetto agli uomini cisgender.
La partecipazione al test dimostra potenzialmente una buona ricettività verso le proposte di prevenzione ma la percezione del rischio risulta decisamente bassa. Le iniziative di promozione del test incoraggiano comportamenti più sicuri e promuovono una maggiore attenzione alla propria salute sessuale riducendo il rischio di infezioni. La relazione dimostra la necessità di introdurre nei curricula scolastici corsi di educazione sessuale adeguatamente finanziati e di sperimentare le necessarie risposte alla propensione al test mostrata dai giovani.
Aging e HIV
“Make people with HIV experience healthy aging”: permettere un invecchiamento in salute tra le persone in HIV, costruire strategie di salute pubblica, potenziare il ruolo delle community: questo il tema della relazione di Giovanni Guaraldi, dell’Università di Modena e Reggio Emilia, tra i maggiori esperti italiani di aging e HIV.
Migliorare la qualità della vita delle persone in HIV che affrontano l’invecchiamento resta uno dei grandi temi di questi ultimi anni di studio; accanto a questa priorità –ha segnalato Guaraldi - si rende però sempre più urgente anche la necessità di costruire una più generale cultura della prevenzione e della salute tra chi invecchia, visto che il 30% delle nuove infezioni da HIV si registra ormai tra gli over 50 e che l’età media delle nuove diagnosi è passata dai 37 anni del 2012 ai 41 del 2023. Dunque, l’HIV può essere non solo una dimensione con cui si arriva alla vecchiaia ma anche che interviene durante l’invecchiamento o in fase di pre-invecchiamento influenzandone il decorso.
Posto che le traiettorie d’invecchiamento si verificano per tutti –ha spiegato Guaraldi- la prima questione è valutare caso per caso come l’HIV le modifichi. L’invecchiamento non è una malattia in sé ma una sindrome che comporta segni e sintomi specifici e lo strumento per compiere questa valutazione è l’Indice di Fragilità. La fragilità può essere definita come un accumulo di deficit collegati al processo d’invecchiamento e per valutarla si utilizzano cinque criteri, in parte scientifici, in parte auto-riportati: auto- riferita perdita di peso, stanchezza o esaurimento autoriferito, basso livello di attività fisica misurato tramite uno specifico questionario, valutazione della velocità di camminata, misurazione della forza nella stretta della mano. La presenza di uno o due deficit segnala uno stato di pre-fragilità, tre o più deficit indicano uno stato di piena fragilità.
La seconda questione è come trattare la fragilità una volta che se ne ha un quadro chiaro. Le Linee Guida in merito sono insufficienti, ad ogni modo ciò che andrebbe fatto è:
- Coinvolgere la geriatria che dovrebbe studiare questo specifico modello di invecchiamento,
- Proteggere le funzionalità fisiche deficitarie e sostenerle, contrastare la sarcopenia anche con un programma di allenamento fisico e di sviluppo della forza.
- Attuare strategia di deprescribing per ridurre il numero di farmaci da assumere eliminando quelli non necessari
- Agire sulle cause dell’astenia o dell’affaticamento
- Per le perdite non intenzionali di peso studiare appositi programmi nutrizionali che possano invertire la tendenza e apportare un supplemento di proteine e calorie, adottare la somministrazione di vitamina D in caso di deficit.
Più complesso è il quadro che ci riguarda visto che, ha spiegato Guaraldi, l’HIV rappresenta un modello di aging unico e specifico, caratterizzato da infiammazione cronica, da eventuali specifiche comorbidità, dall’insorgere precoce dei sintomi e delle patologie legate all’invecchiamento, peraltro con livelli più elevati rispetto alla popolazione generale. Non aiuta la scarsa preparazione generale della classe medica esterna all’infettivologia, sullo specifico dell’HIV, c’è qualcosa che non sta funzionando.
Eppure sarebbe fondamentale –ha detto ancora Guaraldi- aggiornare competenze mediche e linee guida “Affinché l’invecchiamento diventi un’opportunità di salute così come indica l’OMS”; Non si tratta di cancellare la fragilità ma di integrarla, e supportarla preservando resilienza, capacità intrinseca e abilità funzionali delle persone e considerando il modo in cui interagiscono nell’ambiente in cui vivono.
Sono sei i domini che attengono alla capacità intrinseca di una persona e che vanno preservati per un invecchiamento in salute: la capacità motoria, le risorse psicologiche, quelle cognitive, l’udito, la vista, la vitalità.
“Per il raggiungimento di questi obiettivi in HIV, il ruolo delle communities è fondamentale –ha spiegato Guaraldi- questi processi vanno sviluppati e monitorati dalle communities perché lo stigma che sperimentano rende più complesso preservare la resilienza psico-fisica delle persone”. Ha fatto notare Guaraldi come, in vecchiaia, allo stigma nei confronti dell’HIV rischi di unirsi anche l’agismo che colpisce in generale le persone anziane e che agisce su più livelli. Il più dannoso è quello istituzionale, quello ad esempio sperimentato nei servizi socio-sanitari che impongono enormi sforzi alle persone anziane per tutelare la propria salute. C’è poi l’agismo interpersonale, che impedisce un dialogo intergenerazionale e poi quello auto-inflitto quello per cui ci si arrende e ci si lascia andare."
"Il Manifesto di Glasgow sulle persone anziane con HIV che invecchiano ha già indicato una strada” ha detto Guaraldi annunciando l’avvio di un progetto con le communities, di cui farà parte la LILA, volto proprio a rendere le persone con HIV protagoniste della loro salute anche nell’invecchiamento.
Dalle statine un aiuto prezioso…
Geriatria e cardiologia potrebbero fare molto con i loro studi per incidere sui fondamentali dell’invecchiamento. Intanto, diversi studi ci confermano come le statine siano una risorsa importantissima per favorire un invecchiamento in salute delle persone con HIV.
L’Università di Modena ha contribuito a questi studi tra questi quello illustrato dalla Dottoressa Jovana Milic su una corte di 3544 persone con HIV che ha comparato le traiettorie di fragilità tra persone che utilizzano statine per la prevenzione primaria e secondaria di patologie cardiovascolari e persone che non ne fanno uso. Il follow up era previsto a sette anni e mezzo. Lo studio ha mostrato come l’utilizzo di questi farmaci abbia “ringiovanito” chi usa statine riducendo l’indice di fragilità del 2,3% ogni anno il che suggerisce gerontoprotettive nelle persone con HIV.
Alla base delle scoperte scientifiche che supportano l’impatto positivo delle statine sulla salute delle persone in HIV di età più avanzata è stato lo studio REPRIVE. Come mostrato dalla relazione di Papa Borijesson del San Raffaele di Milano, i risultati emersi da REPRIVE hanno portato negli scorsi anni a cambiare le linee guida statunitensi (DHHS), europee (EACS) e britanniche (BHIVA) che raccomandano ora l’utilizzo di questi farmaci anche per persone con rischio cardiovascolare (CVD) medio-basso. In particolare, quelle britanniche raccomandano la somministrazione di statine a tutte le persone con HIV dai 40 anni in poi per la prevenzione primaria delle patologie cardiovascolari, indipendentemente dal rischio di CVD e dai valori del colesterolo o dei trigliceridi. Tutte le persone con HIV sono da considerare prioritarie per l’accesso a queste cure.
Ma torniamo allo studio di Jovana MIlic, dell’Università di Modena che mette in luce come l’assunzione di statine diminuisca nel tempo fragilità e sindrome geriatrica e non solo i rischi cardiovascolari. Il gruppo studiato era composto da 3444 pazienti di cui il 31% donne. Età mediana 44,7 anni con un tempo medio trascorso dalla diagnosi di 14 anni. Media di CD4 quasi 600 con un 88,6% di soppressioni virologiche. Follow up di 7 anni e mezzo circa. Le persone cui sono state somministrate statine erano, all’inizio, le più anziane e sofferenti, con indici di fragilità più alti: velocità di camminata inferiore, minore forza nella stretta di mano, sarcopenia più accentuata. Dopo 7 anni e mezzo, nonostante un’età media più alta di 10 anni ed una più lunga convivenza con l’HIV le persone che assumono statine mostrano, di fatto, un recupero di questi valori, ora in sostanza, allineati al gruppo di chi, essendo in migliori condizioni, non ha assunto statine: una sorta di processo di “ringiovanimento", indipendente dal livello dei valori lipidici raggiunti. Si chiede Milic, e con lei gli altri autori dello studio, se questo esito non suggerisca un valore protettivo geriatrico più ampio a queste molecole, un effetto “pleiotropico” ossia aggiuntivo e multiplo, con effetti benefici sull’infiammazione cronica e quindi sull’insorgere di fragilità. E’ la prevenzione degli eventi cardiovascolari che permette questo? Oppure è il contrasto alle fragilità che influenza positivamente gli aspetti cardiovascolari? “Noi riteniamo più che si inneschi un processo di salute in cui un aspetto influenza l’altro –ha detto Milic- portando ad una riduzione delle fragilità”.
Test e consenso informato: è ora di cambiare? Il confronto tra communities e società scientifica
Durante i lavori, “Coalition HIV – L’Italia ferma l’AIDS”, gruppo di lavoro tra clinici, associazioni di pazienti e aziende del settore farmaceutico, ha promosso una sessione sul tema del superamento del consenso informato scritto per l’esecuzione del Test HIV in ambiti sanitari. IL consenso informato in forma scritta –si chiedono in sostanza i promotori- non rischia ormai di rappresentare un ostacolo alla diagnosi precoce e al raggiungimento degli obiettivi UNAIDS più che una tutela? La prassi del consenso scritto rischia di limitare in particolar modo, sostengono ancora i promotori, l’inserimento del test per l’HIV negli esami di routine che vengono eseguiti, ad esempio, in sede di pronto soccorso. Per verificare se il consenso informato scritto rappresenti ancora una tutela necessaria, Coalition HIV ha promosso una survey tra associazioni, infettivologi, persone con HIV, infermier*. Solo il 12% dei 163 rispondenti è convinto che il consenso scritto sia ancora necessario contro il 76,5% che ritiene vada superato. L’83% ritiene, inoltre, molto raccomandabile l’inserimento del test HIV tra le pratiche di routine sanitaria. “Considerarlo un test come tutti gli altri potrebbe peraltro contribuire a de-stigmatizzare il test” ha detto Rosaria Iardino, Fondazione the Bridge e tra le promotrici di Coalition HIV.
Tra gli interventi quello dell’avvocato Paolo Piana, esperto di diritto sanitario, che ha ricordato come la legge 135 del 1990, non preveda il consenso scritto e che la prassi del consenso informato scritto sia invalsa per le esigenze di massima tutela verso le persone con HIV, in un contesto da sempre connotato da forte stigma. Cambiare questa modalità –ha spiegato Piana- può avvenire o con un aggiornamento della legge attuali o con provvedimento di “soft Law” ossia raccomandazioni, indicazioni di buone pratiche, aggiornamento delle linee guida, protocolli ecc.
In questa direzione va la proposta di Coalition HIV articolata su due punti:
- Un’azione di informazione e sensibilizzazione omogenea su tutto il territorio nazionale presso gli operatori sanitari, al fine di promuovere l’adozione del consenso orale come buona pratica anche mediante uno strumento amministrativo come la Circolare Ministeriale
- Un’ipotesi di aggiornamento normativo della Legge 135/90 attraverso azioni emendative da individuare che sancisca per legge l’impossibilità di poter imporre il Test HIV in ambienti lavorativi
Nel successivo dibattito è intervenuta la Dottoressa Barbara Suligoi, dell’Istituto Superiore di Sanità, secondo la quale, il test Opt-out, dopo un’adeguata informazione, deve essere inserito tra gli esami di routine soprattutto in alcuni contesti sanitari: ambulatori per le Infezioni Sessualmente Trasmissibili, consultori, centri per la gravidanza “Dove –ha spiegato Suligoi- ancora si riscontrano casi di donne che non vengono sottoposte al test”.
Diversi gli interventi di esponenti delle communities che, pur non opponendosi alla possibilità di un consenso orale in specifici ambiti sanitari, hanno però ribadito le loro perplessità in merito ad alcuni punti di questa proposta. Giusi Giupponi, Presidente nazionale della LILA, ha ricordato come i casi di discriminazioni segnalati annualmente alla stessa LILA continuino a riguardare principalmente proprio gli ambiti sanitari dove, ad esserne colpiti sono sia i lavoratori che i pazienti. Massimo Farinella, Mario Mieli, ha ricordato come le associazioni abbiano sempre difeso la necessità di un consenso informato rafforzato proprio in virtù dello stigma subito da sempre dalle persone con HIV, ma anche da chi viene considerato, erroneamente, un possibile appartenente a presunte categorie a rischio. Alessandra Cerioli, della LILA, pur non dichiarandosi ostile ad azioni che possano favorire il contrasto al sommerso si è però detta perplessa sul fatto che l’ostacolo sia realmente il consenso scritto al test quanto, piuttosto, la generale impreparazione su tema di medici e personale sanitario esterni all’infettivologia: “Le associazioni dei medici devono interscambiare di più rispetto alle loro competenze –ha detto- e aggiornare la loro formazione”. Analogo il commento di Sandro Mattioli, di Plus: “Se non c’è conoscenza del tema, l’Opt-out sul test non porterà a risultati molto diversi da quelli attuali”.
Alcuni dati che contano: nuove diagnosi, accesso alle terapie, sommerso
Il progresso verso gli obiettivi ONU per il 2030 (infezioni zero, gran parte delle persone con HIV in terapia e con soppressione virale, azzeramento delle morti per AIDS) non sta andando come previsto. Lo hanno messo in luce diverse relazioni. Virginia Regine, dell’istituto Superiore di Sanità, nella sua relazione “Incidence of a new diagnoses in Italy: a copmparision with major Western European countries”, ha analizzato l’andamento delle nuove diagnosi in Europa occidentale, con attenzione particolare a Italia, Spagna, Francia, Germania e Gran Bretagna, nel periodo 2014-2023. In tutti i 23 paesi dell’area l’andamento delle nuove diagnosi è simile e fa registrare un aumento a partire dal 2021. L’incremento maggiore si registra nel Regno Unito che, con Francia e Spagna si colloca sopra la media dell’Europa occidentale mentre Italia e Germania si mantengono appena sotto la media. In tutta l’area torna a salire, di conseguenza, anche l’incidenza che, nel 2023, ha superato anche quella, pre-Covid del 2019. La ripresa delle nuove diagnosi sembra dovuta principalmente alle popolazioni straniere, con una quota di donne significativa. In Italia la quota di stranieri con nuove diagnosi rappresentava, nel 2023, il 37% del totale, una delle più basse, mentre in gran Bretagna raggiunge l’83%, la più alta dei paesi europei occidentali con una presenza maggioritaria di persone dall’Africa sub-sahariana (63,6%). In Spagna è invece maggioritaria (66%) la quota di nuove diagnosi tra persone straniere provenienti da America Latina e Caraibi. Più differenziata è la provenienza degli stranieri in Italia con prevalenza, quasi il 35%, di persone provenienti dall’Area sub-Sahariana. Per quanto riguarda l’orientamento sessuale delle persone colpite, in Spagna, il gruppo maggioritario è rappresentato da MSM (55%), in Italia dalle persone eterosessuali il 48% a fronte di un 39% di MSM; Nel Regno Unito la percentuale di eterosessuali colpiti o colpite è del 59%, la più alta tra i cinque grandi paesi in esame. La quota di IDU (persone che si iniettano droghe) tra le nuove diagnosi è del 5% in Germania, la più alta, mentre in Italia è del 3%. In conclusione: l’incremento di nuove diagnosi in Italia appare in linea con quanto sta accadendo nel resto dei paesi dell’ovest europeo mentre i livelli più alti si registrano in Gran Bretagna e Francia. L’Italia, invece, è il paese dell’area che registra più diagnosi tardive: il 60% di tutte le nuove segnalazioni. L’aumento, secondo Regine, può essere in parte attribuito ad una ripresa delle attività di testing dopo il COVID ma anche alla maggiore promozione di campagne di testing che hanno fatto emergere più casi.
Le popolazioni straniere si segnalano come gruppi cui dedicare particolare attenzione. Sempre secondo uno studio condotto dall’ISS e illustrato dal Dottor Iacono, nonostante nel nostro paese le siano meno del 10% del totale della popolazione, in questi ultimi anni post-Covid, sono arrivate a rappresentare, come detto, il 37% delle nuove diagnosi. La crescita è evidente almeno dal 2012 con un picco nel 2016 e una stabilizzazione fino al 2023. L’incidenza di HIV tra le persone straniere in Italia è comunque quattro volte più alta rispetto all’incidenza tra gli italiani. Questi dati dimostrano –concludono i relatori-la necessità di iniziative di prevenzione mirate a queste popolazioni e di migliorarne le opportunità di accesso ai test e alle terapie delle persone straniere.
Altro gruppo cui porre particolare attenzione è quello dei/delle sex workers, spesso contiguo con quello delle persone migranti. Di particolare interesse in merito è stata la relazione:“A survey on the continuum of care for HIV in sex-workers in Italy: the contribution of NGOs”, studio finanziato dal Ministero della salute illustrato dalla dottoressa Elisabetta Gennaro. La scarsa quantità di dati disponibili in Italia sulle Key-population non permette studi più approfonditi; per questo si rivela tanto più importante l’osservatorio di associazioni e communities. Un questionario distribuito da 32 ONG tra il 2024 e il 2025 ha permesso di contattare 578 sex workers, di cui la maggioranza (87,2%) raggiunta con iniziative sul territorio (outreach). Tra loro ben il 25% non aveva avuto alcun accesso al servizio sanitario nazionale; il 62% aveva eseguito il test per l’HIV solo una volta e ben l’11%, mai. Le loro condizioni sociali sono risultate essere molto critiche, (il 5,5% si è dichiarato homeless, l’8,7 ha segnalato condizioni abitative inadeguate). Quasi il 25% ha dichiarato la propria positività all’HIV. All’interno di questo sottogruppo il 90,6% assumeva era in ART ma solo il 47% riferiva di essere in soppressione virologica il 15% dichiarava di non aver raggiunto questo stato e ben il 38% non conosceva la propria situazione virologica. Questi dati evidenziano gravi problemi nell’accesso e nel mantenimento in cura di una popolazione così vulnerabile. Per raggiungere uno stato di cure accettabili è importante sostenere azioni di empowerment di queste persone, agevolare e semplificare il loro accesso alla salute, sostenere ogni azione che riesca a raggiungerle sul territorio.
Andare incontro alle persone sui territori è stata anche la sfida di un progetto per il contrasto alle epatiti virali, illustrato dal dottor T. Caruso: “HBV and HCV Testing in Italy’s Marginalized Groups: Advancing WHO’s 2030 Elimination Goal”. “La salute delle comunità emarginate è fondamentale per la salute pubblica e per contrastare le disuguaglianze” ha affermato, ricordando i dati del Rapporto Globale sull'Epatite 2024 dell'OMS: nel 2022 oltre 304 milioni di persone convivevano con l'infezione da HBV/HCV. Per questo nell’ambito dell’intervento, da gennaio 2019 a febbraio 2025 sono state condotte campagne di testing presso organizzazioni no-profit, centri di accoglienza per migranti, centri di assistenza per altre persone vulnerabili, nelle aree metropolitane di Firenze, Prato e Pistoia. Le persone testate sono state 2.108 con un’alta adesione: ben il 92%. I partecipanti positivi sono stati indirizzati all'ambulatorio più vicino per essere collegati alle cure e, tra loro, il 52% è riuscito almeno a fare una prima visita. 83 persone (il 3,9%) sono risultate positive all’epatite B con una maggioranza di stranieri provenienti da paesi a bassa aderenza vaccinale; 52 (il 2,5%) sono state le persone risultate positive all’epatite C con una prevalenza di italiani gravati da condizioni di forte esclusione sociale. Le percentuali di persone risultate positive ad HBV/HCV erano più alte rispetto alle prevalenze nazionali. I risultati segnalano la necessità di implementare lo screening dei gruppi di popolazione più emarginati per contrastare il sommerso e per ridurre le disparità nell'assistenza sanitaria condizioni imprescindibili e per porre fine all'epatite virale come minaccia per la salute pubblica entro il 2030.
Mantenere le persone collegate alle cure è fondamentale per raggiungere gli obiettivi 2030. Per questo diverse ONG e l’Unità malattie infettive di Bergamo hanno voluto indagare le caratteristiche delle persone che si perdono al follow up. Gli esiti di questa indagine sono stati illustrati da Laura Comi nella relazione: “Characteristics of people living with HIV who were lost to follow-up”, uno studio retrospettivo su pazienti post-Covid che sono venuti presso il centro, ma poi non si sono più presentati ai successivi appuntamenti. Su 2789 persone in cura quelli che si sono “persi” sono stati 106. Ripercorrendone le sorti si è appreso che 32 pazienti sono deceduti, 7 si sono spostati presso altri centri clinici, 25 invece le persone che continuano a ritirare i farmaci ma non si presentano per visite o esami (persistent) mentre ben 41, il 38% circa, sono irrintracciabili.
Per quanto riguarda il progresso verso gli obiettivi 2030 un altro dato non confortante sulla “Cascade of care” lo ha fornito il dottor Andrea Antinori, dello Spallanzani di Roma: in Italia si stima che ci siano ancora almeno 27mila persone con HIV viremiche. ILa maggioranza è costituita da persone inconsapevoli del proprio stato sierologico e che, dunque, non sono in cura. Ci sono poi circa 8mila persone che, pur consapevoli, non sono in cura o non sono aderenti alle terapie e, infine, un piccolo gruppo che sperimenta fallimenti terapeutici. “Sono numeri troppo alti rispetto agli obiettivi da raggiungere –ha detto Antinori- come troppo alto è ancora il numero di nuove diagnosi annue, circa 2500; Difficilmente raggiungeremo l’obiettivo infezioni zero per la fine del decennio –ha proseguito- ma almeno si deve puntare a diminuirle, a dimezzarle”. Le azioni urgenti e necessarie per farlo richiedono più risorse secondo Antinori e una diversa programmazione delle priorità: “Occorre diffondere il più possibile il ricorso alla PrEP, incentivare PrEP e ART long acting, occorre recuperare le persone che si perdono ai follow up e poi sfruttare le risorse derivanti dalla riduzione dei costi delle terapie investendoli su prevenzione, contrasto al sommerso e linkage to care”. Secondo Antinori è prioritario anche lavorare su un aggiornamento dei medici e dei clinici esterni all’infettivologia affinché possano prescrivere la PrEP ma anche allargare il ventaglio di servizi disponibili: consultori, cliniche di salute sessuale e, soprattutto, servizi community - based che vanno adeguatamente finanziati.
La partecipazione della LILA
La LILA ha promosso e partecipato a ICAR presentando 3 Lavori e partecipando ad altri 5.
“TelePrEP: New data on a best practice in HIV prevention”, comunicazione orale sullo sportello TelePrEP; sempre sulla Profilassi Pre-Esposizione: “PrEP is an obstacle race”, poster di LILA Cagliari; a cura di LILA Nazionale è stato presentato il poster: "LILA's virtual help desk: giving voice and empowering people with HIV through remote support”, relativo all’esperienza dello sportello virtuale per le persone con HIV.
LILA Milano e LILA Nazionale hanno inoltre contribuito alle seguenti relazioni o posters:
NGO role in Continuum of Care (CoC): An opportunity not to be missed
Per saperne di più:
Table of contents | Sexually Transmitted Infections
Repository | 17° Congresso Nazionale ICAR - Padova, 21-23...
Foto per gentile concessione di ICAR