COVID e HIV: l'impatto sui percorsi di diagnosi e cura. Dati e riflessioni dalle giornate di NADIR 2021

Meeting immagineCon la partecipazione di 100 iscritti e 35 associazioni territoriali, la prima edizione annuale de Le Giornate di Nadir, tenutasi ancora una volta in modalità virtuale, si è concentrata sull’analisi della situazione attuale e sulle strategie messe in campo a livello terapeutico, psicologico, di comunicazione e formazione che mirano alla ripresa del percorso di salute per le persone che vivono con l’Hiv e in particolare per le popolazioni più fragili.

Nell’ultimo anno e mezzo il sistema sanitario pubblico è stato travolto da una nuova pandemia che lo ha scardinato e ne ha mostrato tutta la fragilità. Gli effetti sono stati molteplici e si sono percepiti nei diversi reparti dei centri clinici, ma ancor di più in quelli di malattie infettive: “Seppur con delle eccezioni e con una certa distanza dalla prima ondata, infatti, — ha detto Filippo Schlosser nel suo intervento di apertura — tanti ospedali non sono ancora pronti per riprendere il percorso di salute delle PLWHIV (People Living With HIV). In un periodo in cui le persone con Hiv parlavano ormai soprattutto del quarto novanta, ovvero del raggiungimento di una buona qualità di vita, — ha continuato — ci siamo improvvisamente trovati di fronte a un sogno perduto”. E’ vero, tutti ci siamo sentiti persi, siamo stati costretti a restare isolati, e abbiamo dovuto trovare nuove modalità per mantenere i rapporti sociali esistenti o costruirne di nuovi, ma per le persone che vivono con l’Hiv si è trattato di riaprire vecchie ferite, del riemergere di fantasmi nascosti, di rivivere quei sentimenti di smarrimento, solitudine e ansia che avevano già conosciuto al momento della diagnosi.

Alcuni centri clinici si sono distinti, rispondendo alla sfida in modo velocissimo e riuscendo mantenere il contatto con i propri pazienti. Tra questi, l’Istituto Dermatologico San Gallicano (IRCCS) e il Policlinico Gemelli di Roma: nel primo caso si tratta di un ospedale mono-specialistico che non ha come attività centrale l’Hiv, nel secondo caso di una struttura molto grande e multidisciplinare. Grazie all’implementazione di un sistema di teleconsultazione che era già predisposto e una stretta collaborazione con la farmacia, il San Gallicano ha effettuato tutti i prelievi periodici necessari, tutte le visite urgenti e ha recapitato la terapia a casa per oltre il 40% delle dosi. “In quanto istituto non toccato dallo spostamento dell’assistenza su COVID-19 — ha confermato il dottor Massimo Giuliani siamo stati attrattivi anche per pazienti provenienti da altre regioni”. La realtà del Policlinico Gemelli è chiaramente molto differente, centro multidisciplinare con un ambulatorio di malattie infettive, che segue circa 2000 pazienti Hiv positivi, improvvisamente destinato all’assistenza dei pazienti affetti da COVID. “La chiusura del centro del nove marzo 2020 ha fatto sì che i nostri pazienti e noi medici ci sentissimo persi”: queste le parole della dottoressa Simona Di Gianbenedetto, che nella sua relazione ha riassunto l’esperienza del Policlinico in questo periodo difficile. Dopo una chiusura di oltre due mesi, in cui il centro era aperto solo per le urgenze e la consegna dei farmaci, la struttura ha avuto la possibilità di separare il percorso COVID dal resto, portandolo in un’altra struttura, con un graduale ritorno alla situazione precedente. Da un’analisi di quanto accaduto da marzo a novembre 2020, è stato riscontrato un calo delle nuove diagnosi del 29%, con 28 casi di AIDS conclamato recuperati dai percorsi COVID.

Laddove i centri clinici non hanno risposto in modo così efficiente i centri extra-ospedalieri e le associazioni sono state di grande supporto per fornire quei servizi alla persona che sono venuti a mancare. Giulio Maria Corbelli di Plus e CheckPoint Bologna ha confermato che dal 2004 si è registrato un incremento significativo dei centri community-based in tutta Europa e in particolare dei CheckPoint, indirizzati in special modo alla comunità omosessuale. I servizi offerti sono molteplici, dall’ambito del counseling e supporto alla pari, ai servizi di testing e trattamento per Hiv e le altre IST (infezioni sessualmente trasmissibili), alla PrEP (Profilassi Pre-Esposizione) ormai divenuto un servizio molto apprezzato, fino ad essere in alcuni casi veri e propri centri di ricerca sociale e clinica con progetti svolti in collaborazione con i centri clinici o in modo autonomo. “Affinché tutto questo possa diventare prassi ed essere integrato nel percorso di assistenza alle persone con Hiv — ha precisato Corbelli —è necessario un approccio innovativo che richiede un riconoscimento di tipo legale, giuridico e che prevede dei finanziamenti specifici”. “L’approccio community-based e peer — ha detto poi Daniele Calzavara, del CheckPoint Milano, — aumenta la retention in care e abbatte lo stigma”. Spesso le associazioni riescono a raggiungere un’utenza che i centri clinici difficilmente sono in grado di intercettare, ma la pandemia ha messo in difficoltà anche il loro intervento, per esempio all’interno dei locali di ritrovo e divertimento. “Il problema delle diagnosi tardive — ha continuato Calzavara — è dovuto anche a un approccio culturale sbagliato e retrogrado, per questo il lavoro delle associazioni di rendere la tematica della salute sessuale più accessibile è di estrema importanza”.

Il calo delle nuove diagnosi e le comorbidità dovute alle mancanze nella prevenzione e nel follow up sono infatti le conseguenze che destano maggiore preoccupazione, lo ha confermato anche la professoressa Eugenia Quiros Roldan, ricercatrice e docente presso l’Università di Brescia, che ha condotto uno studio sulla coorte di Brescia di quasi 3900 pazienti. Da una prima analisi che ha confrontato i mesi di marzo e aprile 2020 con un bimestre nel 2019, si è riscontrato un aumento delle persone che non si sono presentate alla visita e un calo nel ritiro dei farmaci del 23%, in entrambi i casi la maggior parte erano donne e stranieri. I dati più allarmanti rimangono quelli delle nuove diagnosi, che sono passate da 6/9 al mese durante il 2019 a 3 nei mesi di marzo-aprile 2020. “Non abbiamo fatto niente sul fronte della diagnosi precoce e l’accesso alla diagnosi — ha ammesso la dottoressa Quiros Roldan — e abbiamo interrotto lo screening e prevenzione per le comorbidità più frequenti nell’Hiv”.

Forte e chiara è la denuncia delle associazioni per il disinteresse e il non mantenimento degli impegni da parte del governo, “il quale — ha ricordato Massimo Oldrini, Presidente Nazionale Lila, — è stato ripetutamente sollecitato affinché fossero garantiti i percorsi di cura per le PLWHIV”. Ma il documento condiviso presentato lo scorso luglio da moltissime associazioni di pazienti e della community, che richiede di stilare alcuni requisiti minimi e linee guida generali per tutti i reparti di malattie infettive, deve ancora essere recepito dalla Conferenza Stato-Regioni: “Un ritardo inaccettabile — ha detto ancora Oldrinivista la situazione emergenziale che stiamo vivendo e il quadro estremamente diversificato dei centri di cura e assistenza delle persone che vivono con l’Hiv”.

Tra gli interventi ha suscitato grande interesse la relazione del professor Stefano Vella, infettivologo e docente all’Università Cattolica di Roma, che ha parlato dell’AIDS come modello di salute globale. Con un excursus sulla storia dell’Hiv/AIDS ha ricordato come le diseguaglianze e i diritti siano alla base dello sviluppo delle grandi pandemie. Anche nella lotta all’AIDS le battaglie delle associazioni sono state determinanti per l’accesso universale alle cure. Secondo Vella, il concetto economico di bene pubblico, non esclusivo, sarebbe da applicare anche alla salute, citando a questo proposito la conferenza ministeriale del WTO (World Trade Organization) svoltasi a Doha nel 2011 quando si era stabilits la sospensione delle regole dei brevetti nel momento in cui un paese avesse avuto un grave problema di salute pubblica. Sul fronte COVID-19, data la natura del virus e l’improbabilità che a livello globale tutti abbiano accesso ai vaccini, Vella prevede che non scomparirà completamente ma diventerà un’infezione endemica.

A proposito del problema dell’accesso ai vaccini, Oldrini ha detto che il problema ci riguarda da vicino ricordando la mobilitazione europea avviata lo scorso novembre 2020 dall’ICE (Iniziativa dei Cittadini Europei), “No Profit on Pandemic”, per richiedere una moratoria sui diritti di brevetto dei vaccini di almeno due anni che permetterebbe anche ai paesi con basso reddito la produzione dei vaccini e di far fronte alla pandemia.

Ancora una volta similitudini e differenze tra COVID e HIV, come la perdita dei punti di riferimento, lo smarrimento, la solitudine e il trauma che accomuna una pandemia ad una diagnosi inaspettata. “Il covid per certi versi ha riassunto in un tempo molto breve un percorso che una persona con l’Hiv fa in molti anni” — ha detto la dottoressa Lia Bove nella sua relazione dai toni poetici sulla dimensione emotiva dell’HIV in epoca COVID. L’esperienza pandemica ha portato limitazioni e perdite che ognuno di noi ha provato ad affrontare con i propri mezzi. Non siamo ancora in grado di dire quali saranno le conseguenze nel lungo periodo della pandemia sull’equilibrio psichico delle persone e sulle relazioni di cura, ma le esperienze passate, il nostro vissuto, sono la base per affrontare le nuove sfide. “Chi ha alle spalle un percorso elaborativo in grado di attivare competenze emotive utili per superare le esperienze traumatiche e attingere alle proprie risorse resilienti, — ha concluso Bove — oggi potrà confrontarsi con la paura e l’ansia senza esserne sopraffatto”.

 

Photo by Scott Graham on Unsplash

 

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