Coronavirus: la lezione dell'HIV

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Covid 19 bCi sono molte cose che la storia dell’HIV/AIDS può dirci e insegnarci sulla vicenda Coronavirus che sta mettendo sotto pressione il paese, pur nella totale diversità clinica e patogena dei due virus. Come è già accaduto per l’HIV, il nostro sistema sanitario, di fronte a un virus nuovo e sconosciuto, sta rivelando punte di eccellenza assoluta ma anche vulnus pericolosi che vanno colmati prima possibile, in particolare per quanto riguardala nostra cultura di sanità pubblica e le risorse disponibili per garantire il diritto alla salute di medici, pazienti, cittadini.

Ben conosciamo, come LILA, la grande professionalità dei virologi e degli infettivologi italiani, la loro altissima competenza e anche la loro attenzione al rapporto medico-paziente. A loro e a quanti/e si stanno adoperando in prima linea per far fronte all’emergenza Coronavirus, va tutta la nostra solidarietà e la nostra riconoscenza. D’altro canto non possiamo non rilevare come il nostro sistema sanitario si mostri, ancora una volta, tutto sbilanciato sull’eccellenza della cura e assolutamente deficitario sul fonte della prevenzione, come è accaduto, e ancora accade, per l’HIV.

La mancanza di una corretta cultura della prevenzione porta l’organizzazione sanitaria ad intervenire al meglio e con le dovute cautele solo di fronte a diagnosi accertate. Dopo l’esplosione del focolaio nel Lodigiano, ci siamo resi conto di come in Italia sia normale trattare chi giunge presso i presidi medici con febbre e/o in condizioni di difficoltà respiratoria, senza la protezione di guanti o mascherine o come sia normale lasciare che le persone restino per ore in attesa nei pronto soccorso, fianco a fianco, quale che sia la loro sintomatologia. La protezione arriva dopo, a diagnosi fatta. A dettare legge, è, cioè, l’accertamento del caso particolare e non le norme di profilassi generale.

Questo atteggiamento ricorda molto l’approccio drammaticamente sbagliato avuto con l’HIV e che ha portato all’identificazione di presunte “categorie a rischio”, un errore che ha distorto la percezione del rischio degli italiani, e anche di parte degli operatori sanitari, con gravi contraccolpi per la prevenzione. E’ avvenuto spesso, ad esempio, e accade tuttora, che medici e strutture sanitarie esterni all’infettivologia, vogliano conoscere lo stato sierologico dei pazienti prima di effettuare interventi chirurgici, odontoiatrici o accertamenti diagnostici. Questo non tanto, o non solo, per tutelare al meglio la salute delle persone con HIV, quanto per evitare l’infezione di personale e ambienti chirurgici: una prassi estremamente pericolosa perché presuppone che, nella generalità dei casi, le misure di profilassi adottate possano essere meno stringenti di quelle adottate verso le persone con HIV. Non si tiene conto, cioè, del fatto che i pazienti e che gli stessi operatori sanitari, possano non sapere di avere l’HIV o altre patologie infettive come l’Epatite C. La responsabilità di una corretta prevenzione viene cioè scaricata sul/sulla paziente o subordinata alla percezione che si ha dei singoli pazienti. Lo stesso atteggiamento è alla base dell’elevato numero di diagnosi tardive da HIV che caratterizza il nostro paese, parliamo di oltre la metà di tutte le nuove diagnosi annue. Le persone che non si ritengono riconducibili agli stereotipi delle “categorie a rischio” e inconsapevoli di aver contratto l’HIV, possono ricevere la diagnosi con anni di ritardo perché i loro sintomi vengono erroneamente attribuiti, spesso da più medici, ad altre patologie. E questo perché l’HIV semplicemente non viene considerato un esame di routine per chiunque sia sessualmente attivo o attiva.

Un approccio corretto alla prevenzione e alla profilassi non si appoggia ai casi particolari, non si applica solo a diagnosi accertate ma scatta prima della diagnosi, secondo protocolli di routine validi sempre e per tutti. Ovviamente non si tratta di puntare l’indice contro medici o strutture sanitarie ma, probabilmente, di riflettere sulla complessiva organizzazione del lavoro,sulla mancanza di tempi di intervento adeguati, di una continua formazione interdisciplinare, spesso, anche sulla mancanza dei necessari dispositivi di protezione.

L’emergenza di questi giorni giunge, inoltre, dopo trent’anni di tagli alla sanità pubblica e al welfare rischiando di abbattersi su territori letteralmente depredati dei loro servizi e presidi di base e mostrando gli effetti nefasti del taglio di personale medico, paramedico e socio-assistenziale. Tutto ciò mentre continuano a sussistere assurde barriere all’accesso dei più giovani agli studi di medicina e ai curricula professionali.

Gli effetti di queste scelte non possono non riflettersi sulla popolazione generale, da decenni orfana di qualsiasi intervento educativo di igiene pubblica e priva di efficaci presidi di prossimità. Soprattutto, però, l’attitudine a prendere le massime precauzioni solo di fronte a ciò che è evidente, al fatto compiuto, favorisce l’idea che quelli pericolosi siano tutti gli altri ma non noi. E’ l’archetipo dell’untore e della peste che avversiamo da decenni, l’idea che la prevenzione non sia una responsabilità di tutti ma solo di chi si ammala, l’idea che si debba essere protetti senza assumerci in prima persona la responsabilità di comportamenti più sicuri.

La possibilità di proteggere noi stessi, anche per proteggere gli altri e non per proteggerci dagli altri sembra essere ancora molto lontana. Lo stigma e i pregiudizi, lo diciamo da decenni, sono gli alleati migliori di ogni virus, perché costringono le persone a nascondere i propri comportamenti e i propri stili di vita, a non essere efficaci nell’adozione di comportamenti sicuri. Anche all’inizio della vicenda Coronavirus il termine “untore”, così abusato per l’HIV, ha fatto capolino nelle cronache, per poi essere abbandonato, da quasi tutti i media di fronte all'estendersi, così indiscriminato, dell'epidemia. Il riflesso condizionato della ricerca dei colpevoli, tuttavia, è scattato: "i cinesi, quelli che sono stati in Cina (e che ci sono andati a fare...?)" e, per il resto del mondo: "gli italiani che tossiscono sulla pizza..".atteggiamenti  che ostacolono l'adozione di comportamenti corretti, quali che siano i virus da contrastare. 

La collaborazione civica e civile che oggi viene, giustamente, invocata per poter arginare il CoViD-19 non può che essere frutto di un’informazione, chiara, basata sulle evidenze scientifiche, concentrata sulle vie di trasmissione e in grado di raggiungere tutti i target. La capacità delle persone di essere attori e agenti della prevenzione è frutto di educazione di base, formazione costante, partecipazione e coinvolgimento civile. L’auspicio è che il dramma che il paese sta vivendo possa almeno servire a ricostruire i presupposti di questi processi, visto che l’Italia è tra i pochi paesi europei in cui non esistono programmi scolastici per l’educazione alla salute. Molto scarsa è la propensione dei decisori politici al coinvolgimento delle organizzazioni dei cittadini nelle scelte che riguardano il welfare , eppure l’attivismo è stato ed è fondamentale per la difesa della salute pubblica, come mostrano la storia dei movimenti contro l’HIV/AIDS e di altre realtà attive sulla difesa del diritto alla salute. Soprattutto però è necessario che questa vicenda porti ad un radicale rilancio del ruolo del servizio sanitario pubblico, ad un miglior cooridnamento nazionale e ad un radicale cambio di marcia nelle politiche che ne hanno prodotto lo smantellamento.

Un ultimo vulnus, che arriva da lontano, riguarda il dramma delle carceri. Il sovraffollamento generato da una legge datata, criminalizzante e crimonogena, inutilmente repressiva come la 309/90 sulle droghe è il principale responsabile delle rivolte di questi giorni. Secondo il libro bianco curato dalle associazioni del cartello di Genova, è ragionevole pensare che, tra chi ha violato la legge sulle droghe per reati lievi e le persone tossicodipendenti, oltre il 50% dei detenuti e delle detenute italiane abbia una relazione con la realtà determinata dalla 309/90. E’ ora di cambiarla. Lo diciamo da decenni assieme ad altre decine di realtà associative e di assistenza.

In questi giorni molti centri clinici per l’HIV stanno comunicando ai loro utenti nuove e più sicure modalità per il ritiro dei farmaci, così da evitare alle persone con HIV di affollare i reparti di malattie infettive in emergenza. Allo stesso tempo viene disposto lo slittamento delle visite e degli accertamenti diagnostici meno urgenti. (Qui tutte le informazioni che abbiamo raccolto) E’ una necessità che comprendiamo di fronte alla pressione cui sono sottoposte le strutture di infettivologia. Sarebbe un grave errore, tuttavia, se, una volta passata l’emergenza, non venissero ripristinati i precedenti standard di assistenza, standard che ci hanno portato a centrare quasi tutti degli obiettivi ONU per la sconfitta dell’AIDS.

Se c’è una lezione che possiamo trarre dalla storia dell’HIV e dalle cronache di questi giorni è che la garanzia del diritto alla salute non può realizzarsi senza un sistema sanitario pubblico adeguatamente finanziato. Solo il pubblico può avere le competenze e l’interesse necessario a sviluppare modelli di prevenzione efficienti e standard di cura che assicurino il diritto alla salute di tutti e tutte. E’ una questione di qualità della democrazia, è una questione di diritti umani.