Troppe barriere al test per l’HIV: riflessioni da uno studio USA

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test infoLa fruizione e l’accesso al test per l’HIV continuano a essere fortemente ostacolate da troppe barriere di ordine amministrativo, culturale, economico, in Italia come in altri paesi del mondo. Tali ostacoli sono, ovviamente, diversi da paese a paese rispecchiando sia le differenti modalità di offerta da parte dei servizi sanitari nazionali, sia le differenti criticità socio-culturali. Tuttavia uno studio condotto da un gruppo di ricercatori coordinati da Brandon Brown, professore associato di medicina sociale, popolazione e sanità pubblica presso la Riverside's School of Medicine, Università della California, fornisce spunti interessanti per una riflessione generale, anche sul nostro paese. 

Presupposto dell’indagine è la necessità di raggiungere con il test HIV alcune fasce di popolazione californiana tradizionalmente meno propense a testarsi e/o meno attivate in tal senso da operatori e servizi pubblici. Lo studio punta dunque a comprendere come e quanto incidano su questo fenomeno fattori etnici, di genere o relativi all’età. Per questo le circa mille persone arruolate erano per oltre il 62% donne, per il 55,8% ispaniche e per il 51% di età superiore ai cinquanta anni. Lo studio ne ha analizzati dati demografici, abitudini sessuali, percezione del rischio rispetto a se stessi e agli altri.

Interventi tempestivi, incluso il test dell'HIV, sono particolarmente importanti per le persone ispanicheha detto Brown- perché negli Stati Uniti questa comunità rappresenta il 20% delle infezioni da HIV, con un tasso da tre a quattro volte superiore a quello dei bianchi". Quanto alla popolazione anziana: "Occorre sfatare la convinzione, molto diffusa tra i medici, secondo la quale gli adulti e le adulte più anziani/e non siano sessualmente attivi/e –ha detto ancora Brown- Così come occorre correggere la convinzione diffusa tra anziani ed anziane che ad essere a rischio di infezione siano solo altre tipologie di persone”.

Lo studio ha dunque analizzato dati demografici, abitudini sessuali, percezione del rischio rispetto a se stessi e agli altri dei partecipanti, riscontrando come: “lo stigma, l'educazione, le raccomandazioni degli operatori sanitari, la percezione del rischio, i costi siano tra i principali fattori che contribuiscono all'accettazione, o meno, del test HIV” .

In particolare lo studio ha evidenziato che:

Una particolare raccomandazione Brown ha voluto rivolgerla agli operatori sanitari: “È importante che durante le visite parlino direttamente con i loro pazienti dell’HIV e della prevenzione offrendo il test come parte delle cure primarie.

Lo studio individua dunque diversi ordini di problemi sui quali occorrerebbe riflettere anche in Italia, paese in cui l’offerta attiva del test e la propensione della popolazione a farvi ricorso sono ancora largamente insufficienti. Il persistere di pregiudizi che catalizzano l’attenzione su inesistenti categorie a rischio invece che sui comportamenti da adottare per un sesso sicuro, un’errata percezione del rischio dovuta alla mancanza d’informazione e prevenzione, la paura dello stigma che ne è conseguenza inducono sia gli operatori sanitari che gli utenti a rimuovere il test per l’HIV dal novero degli accertamenti di base.

Per superare le barriere che ostacolano l’accesso al test, occorrerebbero invece servizi più flessibili e accessibili anche in termini di orari, rispetto dell’anonimato, gratuità, prossimità territoriale, offerta di counselling. Come prescritto da tutte le agenzie internazionali andrebbe inoltre implementata l’offerta di test in contesti non sanitari come community e associazioni, in grado di incontrare anche le esigenze delle popolazioni più vulnerabili. LILA e altre ONG offrono con successo da alcuni anni servizi di test rapidi accompagnati da colloqui di informazione e counselling. Ad eccezione del raro e virtuoso impegno di qualche ente locale, si tratta di attività perlopiù autofinanziate e svolte su base volontaria. Il Piano Nazionale AIDS, approvato ormai nell’ottobre 2017, prevede invece una piena implementazione e differenziazione dei servizi di testing: da quelli che attengono ai servizi socio-sanitari (Ospedali, Asl, Unità operative, SeRD) a quelli community-based (associazioni, check point, unità di strada). Per raggiungere l’obiettivo ONU della sconfitta dell’AIDS entro il 2030 è, infatti, fondamentale risolvere il fenomeno del sommerso, relativo, cioè, a tutte quelle persone (in Italia si stima siano almeno 20mila) che hanno contratto l’HIV, ma non ne sono consapevoli. Si tratta di un grave problema di salute pubblica perché le persone che sanno di avere l’HIV, in quasi la metà dei casi, ricevono la diagnosi in una fase avanzata dell’infezione, spesso già in AIDS conclamata. Questo compromette la loro salute, rende più complesse le terapie e contribuisce alla diffusione inconsapevole del virus. Le persone con HIV in trattamento, soprattutto se iniziato tempestivamente, possono, invece, raggiungere oggi livelli di salute e qualità della vita simili a quelli della popolazione generale. Non solo: una terapia di successo, debitamente monitorata, sopprime la carica virale rendendo le persone con HIV non infettive, con evidenti vantaggi anche per la prevenzione.

Citiamo per chiudere, un altro indicativo passaggio dello studio di Brown: “Negli Stati uniti più di un milione di persone vive con l’HIV ma il 25% di loro non lo sa ancora. Approssimativamente il 70% dei nuovi casi di trasmissione di HIV è attribuibile a persone inconsapevoli del loro stato. Per risolvere questo rilevante problema di salute pubblica un intervento esiste ed è il test per l’HIV”.

https://journals.lww.com/md-journal/Fulltext/2018/08030/Indicators_of_self_reported_human_immunodeficiency.76.aspx