CROI 2017 - Primo Bollettino

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CROI 2017LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XXIV Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche - CROI 2017, in corso a Seattle, negli Stati Uniti, dal 13 al 16 febbraio 2017.

 

 

PRIMO BOLLETTINO

Soppressione virale mantenuta con regime a due farmaci dopo 48 settimane dallo switch terapeutico
Un gruppo di pazienti passati dalla terapia antiretrovirale standard (ART) a un regime a due farmaci – dolutegravir (Tivicay) più rilpivirina (Edurant) – sono riusciti a mantenere non rilevabile la carica virale HIV a 48 settimane dallo switch: sono risultati di uno studio presentato ieri come ‘late-breaking’ all’edizione 2017 della CROI) in corso a Seattle.
“È la prima volta che riusciamo a dimostrare la non-inferiorità di [un regime a due farmaci] a monosomministrazione giornaliera che non preveda l’impiego di un potenziatore farmacocinetico, di un inibitore della proteasi o degli inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa (NRTI)”, ha dichiarato il prof. Josep Llibre dell’Ospedale Universitario Germans Trias di Barcellona.
Negli ultimi mesi è cresciuto molto l’interesse attorno alle strategie di semplificazione terapeutica, soprattutto dopo i buoni risultati ottenuti con un regime coformulato a base di dolutegravir più lamivudina (Epivir) in un piccolo studio condotto l’estate scorsa su pazienti naive al trattamento. Il dolutegravir è un potente inibitore dell’integrasi sviluppato da ViiV Healthcare: ha un’elevata barriera allo sviluppo di resistenze, il che lo rende un ottimo candidato per un regime terapeutico semplificato.
SWORD-1 e SWORD-2 sono due identici studi randomizzati di fase tre condotti in aperto su pazienti arruolati in centri clinici in tutto il mondo, per un totale di 1024 partecipanti, tutti pazienti HIV-positivi in trattamento con triplice terapia che presentavano una carica virale soppressa da almeno un anno. Sono stati esclusi gli individui che avessero precedenti di fallimento virologico o farmacoresistenza, oppure una co-infezione cronica con epatite B.
I partecipanti presentavano una conta dei CD4 al basale, in media, di circa 600 cellule/mm3 e assumevano regimi comprendenti inibitori dell’integrasi (20%), inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa (NNRTI) (54%) e inibitori della proteasi (26%), oltre a due NRTI.
I partecipanti sono stati randomizzati o per passare alla duplice terapia con dolutegravir più rilpivirina oppure per continuare ad assumere la triplice. L’endpoint primario era il mantenimento della soppressione virale a 48 settimane dallo switch, un obiettivo raggiunto dal 95% dei partecipanti di entrambi i bracci dei due studi.
Rari sono stati gli eventi di fallimento terapeutico (< 1% nel braccio che è passato alla terapia semplificata e 1% nel braccio che ha continuato ad assumere la terapia standard) e il trattamento si è dimostrato in generale sicuro e ben tollerato.
Gli studi SWORD continueranno fino alle 148 settimane. È inoltre previsto un nuovo trial in cui verrà sperimentata una coformulazione a dosaggio fisso di dolutegravir più rilpivirina, in cui verranno arruolati anche pazienti che in passato hanno sviluppato farmacoresistenze, per meglio riflettere una popolazione ‘reale’.
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Nuovo inibitore dell’integrasi bictegravir efficace quanto il dolutegravir nella terapia di prima linea
L’inibitore dell’integrasi sperimentale bictegravir si è dimostrato potente, ben tollerato ed efficace quanto il dolutegravir (Tivicay) all’interno di un regime tricombinato in uno studio di fase II presentato ieri al CROI.
Gli INSTI (inibitori dell'attività di strand transfer dell'integrasi) come il dolutegravir sono sempre più importanti nelle terapie di prima linea, e vengono ormai raccomandati nelle linee guida sia europee che statunitensi. Il bictegravir (GS-9883) appartiene alla medesima classe di farmaci, e viene prodotto da Gilead Sciences; può essere assunto in monosomministrazione giornaliera e non richiede l’impiego di un potenziatore come il cobicistat.
Per lo studio di fase II sono stati arruolati 98 soggetti naive al trattamento, che presentavano infezione da HIV generalmente asintomatica con una conta dei CD4 mediana di circa 450 cellule/mm3 e una carica virale mediana di circa 4,4 log10 copie/ml.
I 98 partecipanti a questo studio in doppio cieco sono stati randomizzati per assumere 75mg di bictegravir oppure 50mg di dolutegravir, più 25mg di tenofovir alafenamide e 200mg di emtricitabina, in un’unica somministrazione quotidiana, indipendentemente dai pasti, per 48 settimane.
L’endpoint primario era la percentuale di pazienti che presentavano HIV RNA inferiore alle 50 copie/ml a 24 settimane, un risultato raggiunto dal 97% dei partecipanti che assumevano il bictegravir e il 94% di quelli che invece assumevano il dolutegravir. Alla 48° settimana nel braccio del bictegravir la percentuale era rimasta invariata, mentre era scesa al 91% nel braccio del dolutegravir. Dato il numero poco elevato di partecipanti, questo scarto non è tuttavia statisticamente significativo.
Non si è registrato lo sviluppo di farmacoresistenze degne di nota in nessuno dei due bracci dello studio. Entrambi i regimi si sono dimostrati generalmente sicuri e ben tollerati. Particolare attenzione è stata prestata alla funzionalità renale, su cui si temeva che il bictegravir potesse avere ripercussioni negative: la variazione del tasso di filtrazione glomerulare alla 48° settimana è stata stimata in -7,0 ml/min nel braccio del bictegravir, contro -11,3 ml/min in quello del dolutegravir. Non si è verificato alcun caso di abbandono delle terapie a causa di effetti avversi a carico dei reni.
I risultati sono stati abbastanza promettenti da procedere alla sperimentazione di fase III, in cui verrà studiato un regime monocompressa a base di bictegravir, tenofovir alafenamide ed emtricitabina. La formulazione è stata ottimizzata consentendo di ridurre la dose di bictegravir a 50mg.
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Grazie alla prevenzione combinata cala l’incidenza HIV a Rakai, in Uganda,
È drasticamente calato il tasso di nuove infezioni da HIV all’anno (incidenza) all’interno di una delle più studiate comunità di persone HIV-positive in Africa, la coorte di Rakai, nell’Uganda meridionale. Pare che questo sia dovuto a una serie di fattori tra cui la più elevata disponibilità delle terapie antiretrovirali, la maggiore diffusione della circoncisione maschile e un’età più avanzata dell’esordio sessuale.
I dati provengono da 12 indagini effettuate tra il 1999 e il 2016 in 30 comunità appartenenti alla coorte di Rakai. Quasi 34.000 persone hanno partecipato ad almeno una di tali indagini.
Rakai è un distretto rurale molto colpito dall’HIV: è HIV-positivo circa il 13% della popolazione totale.
L’incidenza è rimasta stabile all’1,17% per la maggior parte del periodo preso in considerazione dallo studio, dal 2000 al 2010. Dopodiché ha iniziato a calare. Nel 2012 era sceso allo 0,8% all’anno e nel 2016 allo 0,66% – una diminuzione del 42%.
I ricercatori hanno individuato tre fattori che possono aver giocato un ruolo chiave:
•  l’assunzione di terapie antiretrovirali, aumentata dal 12% del 2006 al 69% del 2016. La percentuale di pazienti virologicamente soppressi aveva raggiunto quota 42% nel 2009 ed è arrivata al 75% nel 2016;
•  l’aumento della percentuale di uomini circoncisi, dal 15% del 1999 al 59% del 2016;
•  un cambiamento nel comportamento sessuale: i giovani iniziano ad avere rapporti a un’età più avanzata rispetto al passato. La percentuale di ragazzi tra i 15 e i 19 anni che dichiarava di non aver fatto sesso è aumentata dal 30% del 1999 al 55% del 2016.
La diminuzione è stata più marcata negli uomini (54%) che nelle donne (32%), il che probabilmente è dovuto al fatto che la popolazione maschile gode sia dei benefici della circoncisione e che della diffusione relativamente elevata della terapia tra la popolazione femminile.
È la prima volta che viene registrato un calo dell’incidenza a livello di popolazione nella coorte di Rakai. Questi dati sono una prova empirica che una strategia di prevenzione combinata può avere effetti significativi a livello di popolazione, concludono gli autori.
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Neonati trattati a poche giorni dalla nascita più reattivi contro i reservoir HIV
Secondo i risultati di due studi condotti in Sudafrica, nei neonati che iniziano ad assumere la terapia antiretrovirale (ART) a pochi giorni dalla nascita la viremia e il DNA virale calano molto rapidamente. Questo significa che potenzialmente potrebbero arrivare a eliminare i reservoir di cellule latentemente infette dall’HIV, anche se solo in minima percentuale.
L’eliminazione dei reservoir latenti è considerata un passo fondamentale per arrivare un giorno a sviluppare una cura per l’HIV. Questi serbatoi di cellule contenenti HIV DNA si formano subito dopo l’infezione, quindi per aumentare le possibilità di ridurre o addirittura eliminare il materiale genetico del virus nei neonati sarebbe necessario identificare e trattare le infezioni già a pochi giorni dalla nascita.
Un’equipe di ricercatori ha riferito alla Conferenza su cinque neonati a cui è stata somministrata la ART entro gli otto giorni dalla nascita. In tre di loro, l’HIV RNA è sceso al di sotto delle 100 copie/ml nel giro di tre mesi circa, mentre negli altri due in sei mesi.
I livelli di HIV DNA sono calati molto rapidamente nelle prime due settimane di trattamento, dopodiché la diminuzione è stata più graduale nel corso del primo anno di vita: ciò nonostante, la diminuzione è risultata molto più veloce che quella normalmente registrata negli adulti o nei neonati che iniziano ad assumere farmaci dopo i due mesi dalla nascita.
Un secondo studio ha preso in considerazione 75 neonati, tra cui 30 che avevano iniziato la terapia nell’arco dei primi due giorni successivi alla nascita, verificando i livelli di HIV RNA (carica virale) alle settimane 1, 2, 4, 8, 12, 16, 20, 24, 32, 40 e 48.
In tre di questi bambini, i livelli di HIV RNA non sono più risultati rilevabili con il test della PCR qualitativa (in altri termini, in un esame diagnostico l’esito sarebbe stato negativo all’HIV). Tuttavia la risposta è stata estremamente variabile. Un terzo dei neonati hanno effettivamente raggiunto l’abbattimento della carica virale, ma ci sono voluti dai 90 ad addirittura 330 giorni: i restanti due terzi hanno avuto un rebound virale dopo un’iniziale soppressione oppure non sono proprio riusciti a far scendere la carica virale a livelli non rilevabili.
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Risultati migliori con i test POC per la diagnosi precoce nei neonati
L’offerta dei cosiddetti test POC (da point-of-care, sul sito di cura) per la diagnosi dell’HIV nei neonati ha mostrato di aumentare sensibilmente la ritenzione in cura, accelerare l’inizio della terapia antiretrovirale (ART) e aumentare la percentuale di bambini che entravano in trattamento: sono i risultati di un ampio studio randomizzato condotto in Mozambico e presentato ieri al CROI.
Per la diagnosi dell’HIV nei neonati sono necessarie metodologie diverse rispetto agli adulti. Per effettuare test di laboratorio sui bambini nelle comunità gravemente afflitte dall’HIV bisogna infatti affrontare numerose difficoltà logistiche.
Molte di queste difficoltà possono essere più facilmente superate se il test viene offerto direttamente nella struttura clinica, con madre e figlio già sul posto, in modo da poter offrire subito il trattamento in caso di esito positivo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha recentemente approvato due test POC specificamente pensati per la diagnosi precoce nei neonati: uno di essi, denominato Alere HIV-1/2 Detect, è stato fatto oggetto di questo studio in Mozambico.
Lo studio ha coinvolto 16 centri sanitari, che sono stati randomizzati per offrire o soltanto le procedure diagnostiche standard oppure anche i test POC. Durante il corso dello studio sono stati quasi 4000 i bambini nati da madri HIV-positive.
Nei centri in cui veniva offerto il test al point-of-care, lo effettuavano il 99,5% delle madri, mentre negli altri centri solo il 65%. Nel braccio delle strutture dove l’offerta diagnostica era quella standard, inoltre, ci volevano in media 125 giorni prima che la madri avessero i risultati.
Inoltre il 90% dei neonati risultati positivi al test POC iniziavano il trattamento entro i due mesi dalla diagnosi, contro soltanto il 13% di quelli che avevano effettuato il test secondo le procedure standard. A tre mesi dall’inizio della terapia erano ancora in cura il 62% dei bambini che avevano effettuato il test POC contro il 43% di quelli del braccio di controllo.
UNITAID, il fondo internazionale per l’acquisto di farmaci e strumenti diagnostici, ha stanziato 64 milioni di dollari da investire in test HIV di tipo POC per neonati in nove paesi dell’Africa sub-sahariana, con l’obiettivo di eseguire il test ad almeno 215.000 bambini.
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Monitorare la soppressione virale nel tempo
Per avere una visione più chiara dell’accesso alle cure per l’HIV e del coinvolgimento nel percorso terapeutico, la presenza di una soppressione virale sostenuta nell’arco di un anno può essere un indicatore più significativo rispetto al risultato dell’ultimo test della carica virale effettuato: lo si evince da uno studio condotto dai CDC, la più grande agenzia statunitense deputata al controllo e alla prevenzione delle malattie. Gli autori hanno preso in considerazione i dati presenti nel Sistema Nazionale di Sorveglianza HIV per l’anno 2014, che coprono circa il 70% di tutti gli individui dai 13 anni in su con diagnosi di HIV negli Stati Uniti.
È emerso che il 57% dei soggetti considerati riportava livelli irrilevabili di carica virale nell’ultimo test effettuato nel 2014. Solo il 48%, tuttavia, non aveva mai ricevuto un risultato in cui la carica virale risultasse invece rilevabile in tutto il corso dell’anno. Di conseguenza, fare affidamento su un unico test potrebbe portare a sovrastimare la soppressione virale duratura del 20%.
I CDC hanno inoltre riferito che per l’8% degli individui presenti nel database in tutti i test effettuati nel corso del 2014 la carica virale era ancora rilevabile, e che il 32% di loro invece non avevano mai effettuato il test in tutto l’anno, il che probabilmente sta a indicare che non erano in contatto stabile con un centro di cura e con tutta probabilità, di conseguenza, non erano virologicamente soppressi.
Dai risultati emergono inoltre notevoli disparità dal punto di vista demografico, dato che donne, giovani, afroamericani e consumatori di stupefacenti per via iniettiva risultavano i gruppi all’interno dei quali era meno probabile che la soppressione virale risultasse duratura.
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