CROI 2016 - Secondo Bollettino

CROI2016LILA Onlus - Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XXIII Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche - CROI 2016, in corso a Boston, negli Stati Uniti, dal 22 al 25 febbraio 2016.

 

 

SECONDO BOLLETTINO


Botswana vicino a raggiungere l'obiettivo 90-90-90 per test e trattamento
Il Botswana sarebbe già vicino a raggiungere l'obiettivo 90-90-90 per test, trattamento e soppressione virale, rivelano i dati presentati al CROI.
Il cosiddetto "obiettivo 90-90-90" di UNAIDS http://www.aidsmap.com/90-90-90 auspica che si raggiungano entro il 2020 i seguenti risultati:
• diagnosi per il 90% delle infezioni da HIV;
• terapia per il 90% delle persone con diagnosi di HIV;
• abbattimento della carica virale nel 90% delle persone in trattamento con antiretrovirali.
In questo modo quasi tre quarti di tutta la popolazione HIV+ avrebbe livelli di carica virale non rilevabili – una quota sufficiente a ridurre drasticamente il tasso di nuove infezioni.
Il Botswana è il paese che ha fatto da apripista nei programmi di accesso alla terapia antiretrovirale (ART) in Africa Sub-sahariana.
Per valutare l'effettiva estensione della copertura del trattamento nel paese è stato disegnato uno studio che ha raccolto dati relativi al periodo compreso tra il 2013 e il 2015.
Complessivamente, è risultato che l'83% delle persone con HIV erano al corrente del proprio stato sierologico; l'87% delle persone con diagnosi riceveva la ART; e il 96% delle persone in terapia aveva raggiunto l'abbattimento della carica virale. Il 70% di tutte le persone con HIV nel paese risultava avere una carica virale non rilevabile.
Il gruppo con i tassi più bassi di diagnosi, trattamento e soppressione virale è risultato quello dei giovani.
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Abstract dello studio sul sito ufficiale della Conferenza
Webcast della presentazione sul sito ufficiale della Conferenza
Pagine web di NAM dedicate all'obiettivo 90-90-90


PopART – Obiettivo 90-90-90 raggiungibile in Zambia e Sudafrica
I risultati preliminari di uno studio sull'efficacia di una strategia 'test-and-treat' in Zambia e Sudafrica indicano che l'obiettivo 90-90-90 è un traguardo possibile in questi paesi.
Lo studio si chiama PopART, ed è un ampio trial randomizzato a livello di comunità in corso in Zambia e Sudafrica che si prefigge di valutare l'impatto sull'incidenza dell'HIV di interventi per il test a domicilio e l'aggancio alle cure affidati a operatori di prossimità specializzati che operano sul territorio; il trattamento immediato viene invece erogato nei centri clinici tradizionali.
I primi risultati dello studio sono stati molto incoraggianti: il 90% degli adulti ha effettuato il test per l'HIV e il 71% delle persone a cui è stata diagnosticata l'infezione ha iniziato la ART.
Anche se questi dati fanno ben sperare, non c'è da illudersi che la strada per raggiungere l'obiettivo 90-90-90 sarà facile: è pur sempre una sfida di immensa portata. "Bisognerà aumentare di ben 16 milioni il numero di persone in terapia entro il 2020", ha affermato la prof.ssa Diane Havlir dell'Università della California, San Francisco.
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Nuova formulazione del tenofovir: studi sull'impiego nel trattamento e nella PrEP
Il successore del Truvada sarà efficace nella profilassi pre-esposizione (PrEP)?
Malgrado buoni risultati presentati alla Conferenza riguardo l'impiego di tenofovir alafenamide (TAF)/emtricitabina nel trattamento anti-HIV, permangono incertezze circa la sua applicazione come farmaco per la PrEP.
Il tenofovir disoproxil fumarato (TDF) è uno degli antiretrovirali più diffusi, soprattutto in combinazione con l'emtricitabina, con il nome commerciale di Truvada. Si tratta di un farmaco cardine nel trattamento dell'HIV, ma viene anche impiegato a scopi preventivi, ossia nella PrEP.
Il TDF è molto potente e generalmente sicuro e ben tollerato, ma in certi pazienti può dare problemi a ossa o reni. Il tenofovir alafenamide (TAF) è un nuovo pro-farmaco in grado di rilasciare più efficacemente nelle cellule infettate dall'HIV il suo agente attivo tenofovir difosfato.
Questo consente di raggiungere adeguati livelli intracellulari di farmaco anche con dosaggi inferiori, e di conseguenza mantenere più basse le concentrazioni plasmatiche e ridurre l'esposizione al farmaco di reni, ossa e altri organi e tessuti.
Per quanto riguarda l'impiego nel trattamento antiretrovirale, è stato condotto uno studio su 633 individui già in soppressione virale con un regime che comprendeva l'uso del Truvada (TDF/emtricitabina): i partecipanti sono stati randomizzati per passare a un regime con TAF/emtricitabina oppure per mantenere il Truvada, continuando tutti ad assumere lo stesso terzo farmaco.
Dopo 48 settimane, rispettivamente il 94% e il 93% dei partecipanti dei due bracci dello studio avevano mantenuto la carica virale a livelli irrilevabili, a dimostrazione della non-inferiorità del regime con TAF. È stato però osservato un miglioramento della funzionalità renale e un aumento di densità minerale ossea nel braccio di partecipanti che avevano cambiato regime.
E per quanto riguarda la PrEP? Gli stessi ricercatori che avevano compiuto le prime sperimentazioni animali sull'impiego di TDF/emtricitabina come PrEP hanno ora presentato uno studio 'proof-of-concept' in cui la coformulazione TAF/emtricitabina si è dimostrata efficace nel proteggere i macachi dall'infezione con un virus simile all'HIV, ottenendo inoltre livelli similari di protezione con un dosaggio molto inferiore a quello necessario nei regimi con TDF/emtricitabina.
C'è tuttavia un secondo studio che impone una certa cautela in merito all'applicabilità nell'uomo, nonostante i promettenti risultati ottenuti con gli animali. Il TAF si distribuisce infatti nell'organismo in maniera diversa rispetto al TDF.
I ricercatori hanno misurato i livelli raggiunti dal tenofovir nei tessuti rettali in seguito a una singola somministrazione, e hanno stabilito che con il TAF erano circa 10 volte inferiori rispetto al TDF.
Dato che, com'è già noto, il TDF raggiunge concentrazioni più alte nei tessuti rettali che nel tratto genitale femminile (il che spiega in parte la maggiore efficacia della PrEP negli uomini omosessuali piuttosto che nelle donne), gli studiosi speravano che il TAF desse risultati migliori nelle donne. Invece i livelli di tenofovir nei tessuti cervicali e vaginali con il TAF si sono rivelati circa due volte inferiori rispetto al TDF.
Sono evidentemente necessari ulteriori studi per comprendere appieno la farmacologia del TAF nei tessuti mucosi.
I ricercatori hanno sottolineato che il TAF non va utilizzato nella PrEP fino a quando non saranno concluse le relative sperimentazioni cliniche.
Se, come atteso, la coformulazione TAF/emtricitabina quest'anno verrà approvata per l'impiego nel trattamento dell'HIV, sarà importante far capire bene a chi assume la PrEP che la nuova coformulazione non va sostituita al Truvada per un uso al di fuori delle indicazioni previste ('off-label').
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Maggiori informazioni sull'impiego del TAF come PrEP su aidsmap.com
Abstract dello studio sul sito ufficiale della Conferenza
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Maggiori informazioni sull'impiego del TAF nel trattamento dell'HIV su aidsmap.com
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PrEP iniettabile
Alla Conferenza sono stati presentati ieri i risultati del primo studio di fase 2 (sicurezza, accettabilità, definizione del dosaggio) di una formulazione iniettabile a lunga durata d'azione dell'inibitore dell'integrasi cabotegravir per l'uso come profilassi pre-esposizione (PrEP) nelle persone HIV-negative.
Lo studio, denominato ECLAIR, ha saggiato sicurezza e accettabilità di una formulazione iniettabile dell'inibitore dell'integrasi sperimentale cabotegravir somministrato ogni 12 settimane. Gli autori hanno riscontrato che il farmaco veniva assorbito più rapidamente del previsto, e in futuro verrà probabilmente sperimentata la somministrazione ogni otto settimane.
Il cabotegravir deve essere somministrato con due iniezioni nei glutei. Dei 126 uomini che hanno preso parte allo studio, quattro si sono ritirati a causa di reazioni nel sito di iniezione, e il 93% in totale ha comunque lamentato una qualche reazione di questo tipo, che generalmente perdurava per circa cinque giorni (in genere dolore muscolare, ma anche prurito, gonfiore e sensazione di calore). Ciò nonostante, i tre quarti dei partecipanti hanno dichiarato di preferire comunque l'iniezione, piuttosto che assumere ogni giorno farmaci per via orale.
È in corso uno studio parallelo su un campione femminile, al termine del quale verrà deciso se procedere a una sperimentazione più ampia dell'efficacia del farmaco.
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Migliori risultati iniziando il trattamento il giorno stesso della diagnosi
L'offerta della ART il giorno stesso della diagnosi di HIV ha dato prova di migliorare l'adesione al trattamento e accelerare i tempi necessari a raggiungere la soppressione virale in Sudafrica.
È quanto emerge da uno studio condotto su oltre 400 pazienti in cura a Johannesburg tra il 2013 e il 2014. I partecipanti sono stati randomizzati per ricevere un monitoraggio accelerato e l'accesso immediato alla terapia, oppure seguire il consueto percorso multi-visita prima che venisse loro offerto di iniziare la ART.
Nel percorso tradizionale, tipicamente, alla prima visita si effettuano il test dell'HIV, un prelievo di sangue per la conta dei CD4 e uno screening per la tubercolosi (TBC). Alla seconda, vengono comunicati i risultati della conta linfocitaria e del test della tubercolosi e, se necessario, il paziente inizia un trattamento antitubercolare. La terza, quarta e quinta visita sono generalmente dedicate al counselling e all'informazione sull'importanza dell'aderenza terapeutica. Infine, alla sesta visita, il paziente viene sottoposto a un esame fisico e riceve i farmaci antiretrovirali.
Nel braccio 'accelerato' dello studio, lo scopo era di concentrare tutti questi passaggi in un'unica prima visita, idealmente lo stesso giorno in cui il paziente riceveva la diagnosi di positività al virus dell'HIV.
Quasi tutti gli appartenenti a questo braccio (97%) hanno iniziato ad assumere la ART nel giro di 90 giorni, contro il 72% di quelli che hanno seguito il percorso tradizionale. Oltre il 70% di loro ha inoltre iniziato il trattamento lo stesso giorno della diagnosi, con un intervallo di tempo mediano di 2,4 ore tra arruolamento nello studio e ricezione degli antiretrovirali.
I pazienti che hanno ricevuto cure accelerate avevano probabilità maggiori di essere ancora in terapia dopo dieci mesi dall'inizio e di raggiungere l'abbattimento della carica virale (64 contro 51%) rispetto ai partecipanti del gruppo di controllo.
La procedura è inoltre risultata accettabile per i pazienti, realizzabile nella pratica e conveniente sotto il profilo costi/benefici.
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Infettività: la percezione dei pazienti
Una considerevole percentuale di pazienti che ricevono terapie a lungo termine per l'HIV sopravvalutano il rischio di infettare il partner: è quanto emerge da una nuova ricerca condotta negli Stati Uniti.
Si tratta di uno studio su 1809 persone HIV-positive che sono state monitorate per un periodo di tre anni a partire dall'inizio del trattamento.
Dai risultati emerge che non c'è correlazione tra la carica virale effettiva dei partecipanti e la loro percezione della propria infettività.
Ai pazienti è stato chiesto all'inizio dello studio e successivamente con cadenza annuale di fare un'autovalutazione della propria infettività potenziale.
In media, la carica virale prima dell'inizio del trattamento era di 40.000 copie/ml, e in un terzo dei pazienti superava le 100.000 copie/ml. A questo punto dello studio, il 58% dei partecipanti ha valutato la propria infettività potenziale come 'alta' e il 26% come 'media'.
Al termine dei tre anni di follow-up, quasi tutti i pazienti (90%) erano riusciti ad abbattere la carica virale sotto la soglia di rilevabilità: tuttavia il 36% di loro valutava ancora la propria infettività come 'alta', e un quinto come 'media'; soltanto il 14% si considerava non-infettivo.
Va sottolineato che lo studio si è svolto in un arco di tempo in cui sono diventati disponibili dati definitivi che testimoniano la non-infettività dei pazienti in terapia antiretrovirale con carica virale non rilevabile.
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Donne e afro-americani a più alto rischio di ictus
Tra le persone HIV-positive, i gruppi esposti a un più alto rischio di ictus sono quello delle donne, degli afro-americani e dei pazienti con carica virale non soppressa, stando ai risultati di uno studio presentato alla Conferenza.
L'infezione da HIV è un noto fattore di rischio per l'ictus, e i dati sembrerebbero indicare che la frequenza di questi eventi negli Stati Uniti sia in aumento.
Un'equipe di studiosi ha analizzato gli outcome di circa 7000 persone che hanno iniziato la terapia antiretrovirale tra il 1998 e il 2011, allo scopo di determinare la frequenza di ictus e attacchi ischemici minori (i cosiddetti 'mini-ictus') e i fattori associati a tali outcome.
Sono stati riportati in totale 54 tra ictus e 'mini-ictus'. L'incidenza è risultata più elevata tra gli ultrasessantenni, tra le donne e tra gli afro-americani.
Lo studio ha confermato l'associazione tra ictus e svariati fattori di rischio ben noti, tra cui colesterolo LDL alto, ipertensione e insufficienza renale. Anche una carica virale HIV elevata è risultata un fattore di rischio per ictus e 'mini-ictus'.
I ricercatori hanno sottolineato che vari fattori di rischio per l'ictus sono modificabili, e suggeriscono che iniziare tempestivamente la terapia antiretrovirale potrebbe essere d'aiuto. Anche il fatto che donne e afro-americani risultano più esposti al rischio di ictus è un dato che a loro avviso merita ulteriori approfondimenti.
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Test HIV a domicilio in gravidanza
Con l'offerta di visite a domicilio, educazione del partner e test HIV per le coppie si raddoppia la percentuale di uomini che si sottopongono al test per l'HIV durante la gravidanza della partner, secondo i risultati in uno studio condotto in Kenya.
Per aumentare i tassi di adesione al test per l'HIV da parte degli uomini, la gravidanza della partner è indubbiamente un momento favorevole.
Però sono pochi quelli che colgono l'opportunità di fare il test durante questo periodo. Per questo un gruppo di ricercatori ha disegnato uno studio per valutare in che misura le visite a domicilio con offerta di test potevano far aumentare l'adesione rispetto ai percorsi di cura tradizionali nei centri clinici.
Dai risultati è emerso che si è sottoposto al test l'87% degli uomini nel braccio che ha ricevuto visite a domicilio, contro soltanto il 24% del braccio di controllo.
Secondo gli autori, l'intervento si è rivelato efficace e conveniente sotto il profilo dei costi/benefici, e non è risultato associato a un aumentato rischio di violenza sulla partner.
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La partner notification
I programmi di partner notification possono rivelarsi estremamente efficaci nei contesti africani, come rivelano i risultati di una ricerca presentata alla Conferenza.
Uno studio condotto in Kenya ha mostrato che grazie alla partner notification, che consiste nell'indicazione dei partner sessuali delle persone con nuove diagnosi di HIV per poterli informare dell'esposizione all'infezione, è stato possibile raggiungere il 42% dei partner: una percentuale quattro volte maggiore rispetto ai dati precedenti.
Scopo della partner notification è frenare la diffusione delle infezioni sessualmente trasmissibili offrendo l'esecuzione del test e, se necessario, il trattamento a tutti i partner delle persone con nuove diagnosi. Questo intervento tipicamente prevede un colloquio tra un operatore sanitario e la persona a cui è stata diagnosticata un'infezione sessualmente trasmissibile per individuare i partner sessuali e informarli, invitandoli a sottoporsi a un test di screening. Richiede un considerevole impiego di risorse, ma è comunque considerato un modo conveniente per impedire nuove infezioni.
Le evidenze sulla fattibilità della partner notification in Africa scarseggiano, ma stando ai risultati di due nuovi studi l'intervento potrebbe avere la sua utilità.
Una ricerca condotta in Kenya ha infatti mostrato che la partner notification faceva aumentare di quattro volte i tassi di adesione al test. Al contrario, da uno studio in Tanzania emerge che le persone con nuove diagnosi di HIV preferirebbero informare personalmente i partner, piuttosto che delegare a un operatore sanitario. La maggior parte dei partner sessuali contattati si sono in seguito sottoposti al test per l'HIV, e quasi i due terzi di loro sono risultati positivi.
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Allegato: CROI 2016 - Secondo Bollettino

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